Comitato Regionale Emilia Romagna per il ritiro di qualunque Autonomia differenziata, per l’Unità della Repubblica e per la rimozione delle diseguaglianze


Gentile Presidente del Consiglio Regionale della Regione Emilia-Romagna, Emma Petitti,
Viale Aldo Moro, 50 – 40127 Bologna – PEC: PEIAssemblea@postacert.regione.emilia-romagna.it

Oggetto: Petizione popolare, ai sensi dell’art. 16, c. 1 dello Statuto regionale  e dell’art. 121 del Regolamento dell’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna per la revoca della Risoluzione dell’Assemblea ogg. n. 7158 del 18.10.2018 e di ogni relativo mandato per l’acquisizione alla Regione Emilia-Romagna di ulteriori forme e condizioni di autonomia ai sensi dell’articolo 116, c.3, della Costituzione, interrompendo le relative negoziazioni con il Governo statale al fine di ulteriori prerogative legislative.

La petizione può essere firmata a questo link:https://forms.gle/uD7j4GQCvRjUJ1T2A


Lo scrivente Comitato regionale, in pieno accordo con quello nazionale, ritiene la Risoluzione regionale in oggetto portatrice di enormi rischi di profonde diseguaglianze nei diritti e negli interessi dei cittadini tutti ed un vulnus all’unità nazionale come conseguenza dell’introduzione nell’ordinamento di ulteriore autonomia e competenze alle Regioni.

L’introduzione nell’ordinamento di ulteriore autonomia e competenze alle Regioni su materie di determinante interesse nazionale -comprese nell’art. 117 Cost. riformato con L cost. 3/2001- comporterebbe un elevato rischio di profonde disuguaglianze nei diritti e negli interessi dei cittadini tutti e, ripetiamo, un vulnus all’unità nazionale, oltretutto difficilissime da rimuovere comportando, grazie al relativo accordo siglato con il governo, l’esclusione della potestà legislativa centrale e delle sue facoltà di garantire sia l’unità nazionale che l’uguaglianza nei diritti e nei doveri di tutti i cittadini italiani come stabiliscono i primi 12 articoli della Costituzione.


Si darebbe inizio e legittimazione ad un pericoloso processo disgregativo della Nazione da parte delle Regioni richiedenti, tra cui anche l’Emilia-Romagna attraverso la Risoluzione oggetto della Petizione Popolare, e del tutto inevitabile qualora il perseguimento dell’interesse territoriale non tenesse più conto della complessità dell’insieme su questioni vitali per la comunità statuale.
Tutela della salute, scuola (istruzione e formazione), infrastrutture e trasporti, tutela dell’ambiente, protezione civile, beni e attività culturali, organizzazione della giustizia di pace, partecipazione alla formazione ed all’attuazione del diritto dell’UE, coordinamento della finanza pubblica: tutte queste nodali materie non possono e non devono essere sottratte alla potestà legislativa dello Stato (in concorrenza con le Regioni), unico soggetto istituzionale in grado di garantire uniformità di diritti in tutto il paese ed assicurare omogenea distribuzione di risorse ed iniziative necessarie per rimuovere le disuguaglianze che caratterizzano i diversi territori regionali.

Ciò impone un deciso ripensamento di quanto rivendicato dalla regione Emilia Romagna in sintonia -con sfumature di scarso rilievo- con le regioni Lombardia e Veneto.
Tale richiesta di ripensamento non mette e non vuole mettere in discussione la competenza legislativa attribuita alla Regione, e alle Regioni,  ma pone l’accento sulla necessità che pur rimanendo ancorata all’esigenze del territorio non debba escludere la potestà legislativa centrale.

Sottraendo nella sostanza allo Stato la possibilità di legiferare in modo concorrente, verrebbe vanificata e diverrebbe inattuabile la disposizione dell’art.3, comma 2 Costituzione che indica come compito primario della REPUBBLICA . e non di altri soggetti, quello di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”

E’ illusorio pensare che una maggiore autonomia legislativa sulle materie nodali elencate sopra possa garantire solidarietà: il procedimento legislativo previsto nell’art.116, comma 3 riformato nel 2001, introducendo infatti la possibilità per le Regioni di richiedere“ulteriori forme e condizioni di autonomia”prevede che vengano attribuite“con legge approvata dalle Camere con maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata”. Proprio l’eccezionale maggioranza richiesta per l’approvazione dell’intesa, peraltro in vista della riduzione del numero dei parlamentari, vanifica la possibilità che una legge-quadro nazionale possa garantire il diritto minimo all’uguaglianza tra cittadini, introducendo e “garantendo” invece sicura disuguaglianza tra Regioni con ulteriore sfasatura tra Sud e Nord con pesanti ricadute sull’organizzazione e l’erogazione di servizi alle persone.

Dall’evidenza drammatica dell’attuale contesto in cui imperversa una grave pandemia emerge quanto  le regioni procedano in ordine sparso ed il loro agire appare spesso motivato da sole esigenze di contrapposizione con il Governo della Repubblica. Il risultato conseguente è quello di confusione e contraddittorietà delle disposizioni, scarsa comprensione da parte dei cittadini, disordine e spesso sperpero nell’utilizzazione delle risorse pur scarse.

Altresì emerge prepotentemente già nel contesto citato un’ulteriore forzatura dell’ordinamento istituzionale con  la Conferenza Stato-Regioni che sta assumendo il ruolo improprio di  camera di contrattazione in grado di condizionare ed impedire scelte di Governo arrivando, addirittura, alla richiesta di introdurre in Costituzione la Conferenza delle Regioni, sbilanciando così e svuotando di potere il Parlamento, unico luogo preposto al confronto politico ed alla ricerca di una sintesi nell’interesse generale.

E’ necessario, con il ritiro della risoluzione che si chiede con la petizione popolare, un atto politico forte di discontinuità della nostra Assemblea Regionale, di significato nazionale, che prenda atto che Covid-19 ha dimostrato come sia dannoso l’impianto politico e tecnico delle richieste di autonomia differenziata, come sia necessario il  ritiro del “ DdL Boccia “  e sottolinei l’esigenza di una moratoria politica sul 3° comma art. 116 e che, l’eventuale confronto auspicato, questa volta unilateralmente dal Presidente della Giunta dell’Emilia Romagna, sull’insieme del Titolo V avvenga con la partecipazione dell’Assemblea Legislativa.


Con la presente Petizione chiediamo all’Assemblea legislativa regionale, e quindi ai nostri rappresentanti sul territorio, un segnale forte di mutamento di ottica e inversione di tendenza: chiediamo di ritirare la richiesta di maggiore autonomia legislativa così riconoscendo l’imprescindibilità dell’intervento statale in concorrenza.

La petizione può essere firmata a questo link:https://forms.gle/uD7j4GQCvRjUJ1T2A

un incidente di percorso

Didattica a distanza e logica dell’emergenza di Alessandro Palmi

Un incidente di percorso

Dai primi tempi della pandemia, attraversando l’estate, vi è stato un cambio di acronimo, dalla DaD (didattica a distanza) siamo passati alla DDI (didattica digitale integrata) che poi in caso di chiusura della scuola ridiventa la classica DaD, però di fatto contrattualizzata. Questo introduce due distinti ambiti e due piani di lettura altrettanto diversi di questo fenomeno, che risultano mescolati all’interno della situazione emergenziale ma che, in prospettiva, si deve cercare di tenere ben separati nell’ottica di comprenderne gli effetti futuri. I due ambiti sono quello relativo al campo più strettamente pedagogico/didattico e quello relativo al campo contrattuale/normativo, che comprende anche gli aspetti di riorganizzazione del lavoro e di estrazione di valore.

I due piani di lettura, che risultano per forza di cose interconnessi, sono quello che si fonda sull’affrontare l’emergenza (più in generale su cosa significhi “affrontare l’emergenza”) e quello legato ai meccanismi di “ristrutturazione” e “riorganizzazione” che il capitale mette in atto in ogni snodo di crisi; ricordando che il capitale stesso se da un lato tende alla conservazione delle strutture di potere e dei meccanismi di valorizzazione, dall’altro non disdegna di sfruttare qualsiasi trauma o crisi per attuare salti di qualità ed ampliare, nella sua tendenza pervasiva, la possibilità di nuove modalità di valorizzazione.

L’ambito didattico e pedagogico

In ambito didattico si registrano diverse criticità; la prima è la constatazione di come non sia possibile considerare scuola, almeno per come dovrebbe essere intesa nel senso più nobile del termine, un sistema dove la relazione diretta tra docente e discente e la ricchezza delle relazioni trasversali nel gruppo vengono sostanzialmente azzerate. Questa criticità, che sembrerebbe ovvia, in realtà appare incompresa persino da una buona parte del corpo docente, troppi/e sono infatti i/le colleghi/e che semplicemente stanno cercando di riprodurre i “soliti” meccanismi presenti nelle scuole, tentando di riprodurre tutte le liturgie classiche e rischiando di finire intrappolati in un vortice di situazioni paradossali, a volte al limite del grottesco (imposizione di tenere accese le telecamere con mani e telefoni in vista, interrogazioni ad alunni/e bendati ecc…). Senza rendersi conto che, essendo cambiato il contesto, semplicemente non è possibile riprodurre meccanismi e relazioni che sono nati, si sono strutturati e consolidati in un contesto totalmente diverso; si tratta di un approccio che definirei “antiscientifico” o “antimaterialista”. Inoltre, la pretesa di riprodurre pedissequamente il modello classico attraverso la DaD soffre di un ulteriore vizio, sembra non tenere conto di quale sia la causa del cambiamento di contesto, che non è indotto o voluto dal sistema, non da una naturale evoluzione di processi in atto e neppure scelto dai partecipanti; ma è dovuto ad un evento traumatico di portata globale che è piombato sull’attuale organizzazione sociale come un tornado, in maniera velocissima ed imprevedibile.

D’altra parte, il tempo trascorso dall’inizio della crisi pandemica ha fatto giustizia anche di coloro che nei primi tempi hanno tentato di magnificarne le sorti; oramai nessuno tenta più di sostenere la DaD in quanto tale, è opinione corrente e diffusa che non funzioni e non possa funzionare e solamente la paura, indotta da una martellante azione dei media, la rende digeribile ad una grande parte di docenti. Chi ha sperimentato la DaD come docente ha vissuto la frustrazione di parlare con una sequela di palline colorate con una iniziale all’interno di quadratini neri, ha avuto spesso l’impressione di parlare da solo, ha subito l’assenza quasi assoluta di feedback ed in più, in mezzo a tutta questa alienazione, ha pure avuto spiegato che era “colpa” sua, che non sapeva sfruttare l’opportunità offerta dalle tecnologie e che, dunque, era inadatto ed incapace. Aggiungendo frustrazione a frustrazione, il suo lavoro veniva via via sempre più sussunto dalla macchina che diventava sempre più strumento di controllo.

Va comunque detto che, purtroppo, molti/e docenti non hanno dato buona prova di sé in questo frangente; troppo spesso abbiamo visto il semplice tentativo di riprodurre le solite dinamiche di potere esistenti nel gruppo classe in presenza, non a caso in molti/e hanno manifestato una nostalgia del “potere” indotto dal voto e la disperazione per le aumentate possibilità di “copiare”, mentre in altri casi si è vista una certa mancanza di empatia nei confronti di studenti e studentesse, dando per scontato che nessuno/a avesse problemi di connessione o che tutti/e avessero a disposizione stanze e pc per poter studiare, mentre invece si sa per certo che la maggioranza era costretta a connettersi con smartphone e che il sovraffollamento e la carenza di device adeguati erano molto comuni; tanto che i dati di dispersione e non raggiungimento in varie zone hanno superato il 30% del totale. Ovviamente l’atteggiamento del corpo docente è stato variegato, a fronte di coloro che hanno messo in atto i deleteri comportamenti citati ci sono stati/e tanti/e docenti che hanno cercato di mantenere i contatti, aiutare studenti e studentesse, lottato contro l’esclusione e il digital divide, cercando di comprendere ciò che stava loro accadendo.

In generale si può affermare che la riflessione sull’ambito didattico è stata approfondita in particolare dai discenti piuttosto che dai docenti; varrebbe forse la pena di aprire una riflessione più approfondita proprio dal lato docente, per cercare di capire come il cambio di paradigma contenuto nella DaD e nella DDI provochi profonde trasformazioni al ruolo stesso, che vanno ben oltre ad un semplice cambio di contesto didattico, ma che mettono in discussione la natura della prestazione lavorativa.

L’ambito contrattuale e normativo

Per quanto concerne il secondo ambito citato in premessa, è necessario fare molta attenzione a quanto sta avvenendo. Si può sostenere che se realmente si volesse considerare la DaD un mero incidente di percorso, determinato “solamente” dall’emergenza pandemica, non ci sarebbe necessità di fare assolutamente nulla dal punto di vista normativo, basterebbero le “pezze normative” che l’amministrazione ha già messo in atto per permettere una chiusura più o meno sensata del precedente anno scolastico. D’altra parte, i tentativi di contrattualizzazione della DaD e della DDI messi in opera tra estate e autunno non hanno risolto nulla, rimanendo fumosi e contraddittori.

Nelle fasi iniziali il corpo docente è rimasto schiacciato in una tenaglia formata da un lato dalla pretesa obbligatorietà automatica della DaD (che venne giustamente rifiutata) e dall’altro dal fatto che la situazione estrema del lockdown primaverile richiedeva comunque una presa in carico della situazione venutasi a creare; questa contraddizione ha bloccato il corpo docente in una sorta di doppio vincolo: non si poteva non fare la DaD in una qualche forma, ma non si poteva (doveva) accettare che venisse imposta. Questa contraddizione ha bloccato ipotesi di messa in discussione del modello imposto così come ha disarmato di fronte alle riunioni di Organi Collegiali ed a tutte le varie attività legate alla funzione docente; che credibilità e che prospettiva avrebbero avuto una dura opposizione a qualcosa che nei fatti si stava già facendo?

Attualmente la situazione è cambiata, messa alla prova dei fatti la DaD è entrata nel senso comune come un meccanismo che non funziona ed anche i pasdaran del “nuovo che avanza”, che avevano voluto vedere nella crisi una opportunità per “ammodernare” la scuola non hanno più lo spazio che speravano di avere, tanto che gli sforzi di normazione si sono mossi nella direzione di consolidare quanto concerne il nuovo acronimo DDI (didattica digitale integrata). Quindi la posizione di opposizione più forte potrebbe essere: non interessano gli aspetti burocratici, non si è interessati minimamente a regolare nulla di tutto quanto sta accadendo; perché deve essere chiaro che si tratta di un’emergenza, di una fase transitoria che deve terminare il prima possibile, che non si deve riproporre in nessuna maniera e non deve lasciare alcuna eredità. Sulla base di questa premessa ogni forma di regolamentazione o contrattualizzazione rischia di essere controproducente e di contribuire a legittimare e stabilizzare, anche in futuro, la DaD e la DDI.

Però è abbastanza evidente, e non va ignorato, che ci saranno tentativi di introdurre in maniera strutturale la DaD nella versione DDI all’interno della scuola; con questo ci si dovrà confrontare e su questo andranno costruiti analisi e strumenti per contestarla da un punto di vista teorico. L’opposizione la si dovrà sostanziare mettendo in campo analisi dei processi di valorizzazione e riorganizzazione del lavoro attraverso la macchina, opponendoci ad una società del controllo informatico dell’istruzione gestito dai big-tech, richiamando in campo il piano più strettamente didattico. Si dovrà esplorare con attenzione, anche su questo in rete è già reperibile materiale interessante, il ruolo delle piattaforme digitali private, senza dimenticare che queste hanno già messo al lavoro milioni di docenti e studenti che in questi mesi, in maniera totalmente gratuita, hanno fornito loro una enormità di dati, risultato di una gigantesca sperimentazione sul campo che ha permesso di mettere a punto le piattaforme stesse. Per non parlare dell’idea di mettere l’intero sistema di istruzione di una nazione, con tutta la sua messe di dati, in mano a multinazionali che hanno sedi in chissà quali luoghi del pianeta e che neppure pagano le imposte nel Paese stesso.

L’emergenza continua

Vale la pena inoltre confrontarsi sulla cosiddetta emergenza. Va da sé che il discorso sopra esposto, relativamente all’impossibilità concreta di eludere le attuali attività DaD, non può e non deve essere traslato automaticamente in situazioni diverse dal lockdown totale della primavera scorsa. È del tutto evidente che a un anno dell’inizio della pandemia non è ammissibile considerare ancora emergenziale la situazione attuale, questo indipendentemente dagli scenari della situazione epidemiologica. Occorre quindi fare estrema attenzione ai possibili tentativi di utilizzare il cosiddetto modello “shock” (cfr. Naomi Klein) per far passare attraverso risposte ad emergenze (vere o presunte, inattese o create ad arte) modifiche strutturali tese a restringere sempre più i diritti e gli spazi di libertà. Nei mesi estivi e durante l’autunno sia il governo centrale che le autonomie locali non hanno fatto assolutamente nulla per rendere le scuole più sicure; semplicemente si è scelto di non agire sulla base del fatto che sarebbe stato molto più semplice chiudere le scuole considerandole “strutture non essenziali e non produttive”; così è stato, con l’aggravante del patetico balletto messo in piedi dai presidenti di Regione interessati più a mettersi in mostra che ad affrontare realmente le problematiche.

Tutto questo ha portato ad un surrettizio allungamento dell’emergenza, imponendo una centratura della discussione sul tema scuole aperte/scuole chiuse, DaD sì/DaD no; oscurando altre tematiche che sono però molto importanti. Per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza e della chiusura delle scuole si è fatta parecchia confusione, da un lato si registra una carenza di dati ed una mancanza di trasparenza; non è dato sapere quanti siano stati i reali focolai o cluster imputabili alle scuole, non si sa quanti effettivamente siano i deceduti e i ricoverati in terapia intensiva tra il corpo docente e il corpo studentesco e quanti di questi siano realmente imputabili alle scuole. Le scuole, se opportunamente gestite, non sono un luogo più insicuro di tanti altri e possono, anzi, servire come valido elemento di controllo dell’andamento epidemiologico. Ovviamente, per fare questo occorre un vero e proprio cambio di paradigma rispetto a quanto fatto finora, servono investimenti e serve considerare la comunità scolastica come un luogo centrale di esercizio dei diritti e un’attività strategica da preservare e far andare avanti. In verità serve anche ridiscutere il ruolo e la funzione che il lavoro docente deve assumere, se viene equiparato ad un qualsiasi lavoro impiegatizio che può essere svolto in modo quasi indifferente in presenza o come smartworking, allora non vi è alcuna necessità di investire sforzi e risorse per aprire le scuole.

Risulta quindi chiaro come dietro l’apparente dicotomia scuole aperte/scuole chiuse si nasconde molto di più di un generico problema di sicurezza in un contesto emergenziale. Rimane poi lampante il fatto che, al di là delle dichiarazioni di facciata, reali attività volte a mettere in sicurezza le scuole si possono mettere in atto solo con le scuole aperte, solo in queste condizioni si possono mettere a punto le strategie più adatte, per esempio di tracciamento, e si possono attivare presìdi sanitari; con le scuole chiuse si può solamente aspettare che l’epidemia passi, senza porre rimedio alcuno a tutti i danni che le precedenti chiusure hanno già provocato e continueranno a provocare.

Le prospettive

Lo scontro ed il dibattito su scuole aperte/scuole chiuse, tende anche ad oscurare il discorso su cosa sarà della DaD e della DDI una volta terminata la crisi pandemica; ci sono due aspetti da evidenziare:

  1. Ragionare sul perché, a quanto pare, una buona parte del corpo decente e degli studenti delle superiori non sembra essere disponibile a lottare per ottenere l’apertura delle scuole in sicurezza.
  2. Capire cosa sottintendono affermazioni del tipo “non si deve tornare come prima” oppure che “non si deve perdere l’occasione offerta dall’introduzione della DaD e della DDI per trasformare la scuola”. I due punti sono collegati; se è vero che i soggetti coinvolti non sono disposti a battersi per aprire un luogo come le scuole, il primo pensiero che sorge è che a questi stessi soggetti di quel luogo non importi molto, o che comunque non sono disposti a lottare per averlo. Quindi il primo punto, se verificato, darebbe sicuramente forza e sostanza alla seconda affermazione: infatti se i principali soggetti che lo vivono non sono interessati al luogo scuola è evidente che questo ha necessità di essere cambiato.

Qui si aprono grandi quesiti che necessitano di analisi e approfondimento: Cosa indebolisce la scuola pre-covid? Perché tanta parte di chi ci lavora e di chi ci studia non è disposta a difenderla, a valorizzarla? Quali sono i progetti in campo che prefigurano la scuola post-covid? Non si è fatto altro che rideclinare come domande i punti precedenti; lungo l’asse che unisce le questioni sottese nelle domande, si cela una buona parte delle prospettive di intervento che ci possono essere nella scuola del futuro. In particolare, riferendoci al corpo studentesco, piuttosto che a quello docente per il quale la scuola è pur sempre un “luogo di lavoro”, si può notare una forte ambivalenza, tanto che attualmente si possono vedere i primi segni di un movimento che richiede la fine della DaD, ma anche proteste e scioperi della didattica in presenza; poi il dato quantitativo è che entrambi gli schieramenti sono assolutamente minoritari e la maggioranza di studenti e studentesse semplicemente non appaiono interessati/e al tema e non prendono alcuna posizione. Non si può approfondire il punto di vista studentesco in questa sede, si dovrebbero indagare i vissuti e le percezioni di studenti e studentesse che rappresentano una componente sociale che ha subìto un forte impatto dalle profonde variazioni della società nel suo insieme, basti vedere come si è evoluto il dibattito sulla condizione giovanile negli ultimi decenni. Tutto questo in una scuola che, a sua volta, è stata oggetto di trasformazioni profonde consistenti nello stravolgimento della funzione dell’istituzione e nell’asservimento alle logiche del mercato, senza dimenticare una politica di enormi definanziamenti e tagli. Questo, molto sommariamente, il percorso per giungere alla situazione pre-covid che ci consegna una scuola oramai sull’orlo del baratro, che ha perduto qualsiasi identità, all’interno di un processo di riorganizzazione ventilato nel Recovery plan. Su questa scuola già messa in ginocchio si è abbattuta la tempesta pandemica, in vista dell’uscita da questa contingenza si levano le voci del nuovo che avanza; ma attenzione, queste voci arrivano dai soggetti e dalle direzioni più disparate e tra le schiere degli “innovatori” si possono ritrovare tutti coloro che hanno portato avanti le pseudo riforme degli ultimi 20 anni, che non vogliono perdere l’occasione di accelerare la conversione di tutto il sistema scolastico nella direzione da loro auspicata.

DOVE VA LA SCUOLA DEL MINISTRO BIANCHI

di Serena Tusini

anche al link http://www.giornale.cobas-scuola.it/programmi-ministeriali/

Il Ministro Bianchi (ministro tecnico targato PD) come coordinatore del Comitato di esperti il 20 luglio 2020 presentò all’allora Ministra Azzolina un rapporto per la ripartenza della scuola; il rapporto, mai divulgato, è stato prontamente pubblicato dal nuovo ministro e va oggi letto come un vero e proprio documento programmatico del nuovo corso di viale Trastevere.
Gli elementi di preoccupazione sono molteplici, perché questo economista posto a capo della scuola pubblica pare avere idee molto precise sulla direzione che la scuola dovrà intraprendere durante e soprattutto oltre la pandemia.
Il “Rapporto Bianchi è pieno di quella retorica economicista che conosciamo bene da anni: competenze, implementazione dell’Invalsi, compimento dell’autonomia scolastica, scuola digitale, ecc.
Ma alcuni aspetti, pur situandosi nel solco degli ultimi vent’anni di attacco alla scuola, rappresentano un’implementazione del processo iniziato con l’autonomia scolastica. Anche la stessa idea di autonomia, il cui fallimento è ormai sotto gli occhi di tutti, viene propagandisticamente corretta proponendo una contrapposizione tra un’autonomia cattiva (quella competitiva di stampo anglossassone) e un’autonomia buona che viene definita “autonomia solidaristica” e presentata come ideologicamente più coerente con la nostra tradizione scolastica.
Ma dietro a questa autonomia solidale sta un’idea-forza che attraversa insistentemente tutto il documento: i patti di comunità. Si tratta di accordi stretti tra scuole e realtà del territorio (“enti territoriali, terzo settore, imprese, mondo dell’associazionismo e delle professioni”), il tutto sostenuto “dalle risorse dei nuovi Fondi comunitari di cui potrà godere l’Italia nei prossimi anni”. Soldi pubblici dunque immessi nel sistema pubblico per favorire la sua privatizzazione attraverso un’integrazione profonda tra scuola e privato di cooperativa (così caro al modello emiliano da cui proviene Bianchi , ex assessore regionale all’Istruzione). Ma l’idea non è un semplice affiancamento al tempo scuola; si dice infatti che le scuole dovranno “predisporre le attività congiunte come parte organica della propria offerta didattica […] In tal modo attività formali, informali e non formali, possono essere egualmente riunite in un progetto didattico organico proposto dalla scuola […]. Sarà compito della scuola dare senso ed unitarietà ad un progetto organizzativo, pedagogico e didattico ancorato al territorio ”. Insomma la scuola dovrebbe diventare garante della “qualità” dei prodotti privati che si affacceranno, dovrà farli entrare strutturalmente nella propria offerta formativa e tenerne conto nella valutazione degli studenti: “Agli insegnanti resta la responsabilità di una adeguata rilevazione delle esperienze e dei saperi acquisiti”.
Gli Organi Collegiali saranno chiamati ad avvallare la privatizzazione della scuola, quegli organi collegiali ai quali il Ministro riserva parole di disprezzo: “È necessario eliminare la collegialità ritualistica, burocratica e standardizzata chiamando in causa lo scopo morale ed etico della professione”. Noi invece useremo gli spazi di democrazia degli Organi Collegiali per batterci contro i patti di comunità perché essi rappresentano un potente volano per la privatizzazione massiccia di interi settori dell’istruzione attraverso il sistema delle cooperative in cui lo sfruttamento della forza lavoro è enorme, oltre a rappresentare uno dei pilastri del potere clientelare. Perché continuare a pagare docenti se è possibile sfruttare a basso costo la manodopera delle cooperative? Così ore di didattica a scuola saranno sostituite con corsi tenuti dalle cooperative: perché pagare i docenti di musica, di arte, di educazione motoria se gli studenti possono usufruire di corsi forniti dal “territorio solidale”? Non vi è dubbio che l’economista Bianchi porrà al centro del suo lavoro questo obiettivo: ridimensionare la parte pubblica dell’istruzione e compensare il taglio di tempo scuola con l’ingresso delle cooperative lasciando nel contempo ancora più spazio alle agenzie formative private.
Infatti i patti di comunità si sposano perfettamente con un altro motivo ricorrente del documento, quello della essenzializzazione dei contenuti delle discipline: “occorre procedere ad una forte essenzializzazione del curricolo […]rivisitare i curricoli, andare all’essenziale delle competenze, sfrondare ciò “che si fa perché si è sempre fatto e perché è nel libro di testo”; dunque i docenti dovranno fornire competenze di base (fortemente ridimensionate) a cui si aggiungeranno le attività complementari fornite dal “privato solidaristico”.
Il tempo scuola viene proposto come fortemente ridimensionato: “La possibilità di agire anche sulla durata delle lezioni inserita in una prospettiva di organizzazione che tenda a superare lo schematismo degli orari, che lasci spazio ad attività personalizzate nei confronti di ciascun allievo in una logica di raccordo con attività sul territorio”. Il tutto senza dimenticare di sottolineare quello che viene visto come un handicap del sistema formativo italiano in quanto non abbiamo ancora tagliato un anno di scuola superiore “a confronto con quanto proposto in altri Paesi, in cui i ragazzi possono entrare nel mercato del lavoro con almeno un anno di anticipo rispetto ai ragazzi italiani”.
Si tratta, brutalmente, di un ridimensionamento consistente del tempo scuola che significherà un taglio drastico delle cattedre e un impoverimento dell’offerta formativa, un impoverimento del pubblico che specularmente arricchirà il privato delle cooperative.
Un modello fluido, che si sposa perfettamente con il mercato e con altre due idee-chiave che circolano nel documento: da un lato la personalizzazione del curriculum e dall’altro la distruzione del gruppo classe. Si parla infatti di “maggiore personalizzazione dei percorsi (sia per gli studenti più svantaggiati che per quelli eccellenti), ad esempio attraverso l’aumento della quota di opzionalità a disposizione degli studenti” o di “lavorare a classi aperte e per gruppi di livello”, una prospettiva di distruzione del gruppo classe (definito una “gabbia del Novecento”) che è un intento antico, oggi riproposto come soluzione ai problemi del distanziamento dentro le aule. Affermano: “Nessuno ha ancora fatto la Personal School, molto più interessante dell’essere Pubblica o Privata” fingendo di non sapere che proprio la personalizzazione dei percorsi è l’anticamera della privatizzazione. È un’idea inversa rispetto alla scuola della Costituzione: oggi nella formazione delle classi i docenti hanno sempre fatto in modo che in ogni classe fossero presenti ragazzi con potenzialità diverse per cui tutti svolgono lo stesso programma in un’idea paritaria di classe scolastica che contiene una precisa idea di società: è un’idea di uguaglianza, è l’idea costituzionale per la quale la Repubblica cerca di rimuovere le differenze sociali e culturali di partenza e la scuola viene investita di una potente funzione di ascensore sociale. Ma anche la distruzione dell’unitarietà del gruppo classe è un’idea di società, quella società neoliberista dove la meritocrazia e gli indvidui-monadi devono tracciare isolatamente, e non collettivamente, il proprio destino. Tale modello neoliberista permette inoltre, come nelle scuole anglosassoni, di potenziare (e selezionare) le eccellenze prematuramente e di dare il minimo d’ufficio agli altri. Il livello socio-culturale con il quale si entra nella scuola, segna in modo poco superabile il proprio percorso di formazione culturale.
Molti altri spettri si aggirano nel documento: a una deregulation del sistema scolastico, corrisponde infatti, quasi di necessità, l’individuazione dei LEP (Livelli Essenziali di Prestazione), il volano di quella autonomia differenziata che è uno degli altri pericolosi obiettivi rispetto a tutti i sistemi pubblici: quando si saranno definiti i LEP, il privato e il pubblico potranno essere pienamente equiparati e complementari nell’ottica esplicita della sussidiarietà.
E ancora: il ministro auspica la ripresa del confronto con i sindacati in merito alla carriera docenti e alla loro valutazione anche esterna per arrivare a una “definizione di forme di valutazione/apprezzamento dell’insegnamento, nonché di feed-back circa la sua qualità”; auspica un aumento delle ore di alternanza scuola lavoro nonché un accorpamento delle classi di concorso e una riduzione dell’unità oraria di lezione.
Dobbiamo batterci fuori e dentro le scuole per respingere la privatizzazione della scuola pubblica che in questi anni, a differenza di altri settori come la sanità e i trasporti, non è stata pesantemente appaltata ai profitti del mercato. Si farà leva sulle aree svantaggiate del Paese, si dirà che i patti di comunità (già attivi in alcuni territori) serviranno per colmare i gap che la pandemia ha aggravato; ma il divario non si risolve con meno scuola pubblica, ma con il suo rafforzamento; è possibile che il Ministro butti pure sul tavolo, come merce di scambio, qualche migliaio di assunzioni di precari che sono però una goccia nel mare del precariato.