Archivi categoria: Riflessioni politiche e didattiche

NO ALLA RIDUZIONE DELL’ORA DI LEZIONE, NO ALLA RIDUZIONE DEL TEMPO SCUOLA

INDICAZIONI OPERATIVE PER EVITARE COLPI DI MANI NELLE SCUOLE

Il Collegio dei docenti NON deve deliberare sulla riduzione dell’ora di 60 minuti

Il Collegio dei docenti ha potere di deliberare in materia didattica e quando decide di ridurre l’ora di lezione deve prevedere le modalità di recupero dei minuti persi per docenti e studenti.

La riduzione dell’ora di lezione per far fronte all’emergenza covid è invece dovuta a motivi estranei alla didattica e a cause di forza maggiore, pertanto può essere deliberata solo dal Consiglio di Circolo o d’Istituto (CCNL 2007 art 28 c.8).  

ATTENZIONE! Se il Collegio delibera la riduzione, i minuti persi dovranno essere recuperati con gli/le stessi/e studente con il forte rischio che questo venga effettuato con la DAD. Il Collegio dunque non deve deliberare la riduzione dell’ora di 60 minuti. 

Il Consiglio di Istituto deve deliberare contro ogni ipotesi di riduzione del tempo scuola in presenza

Per contrastare i colpi di mano in Consiglio di istituto, docenti, ATA, genitori dovranno deliberare contro ogni ipotesi di riduzione del tempo scuola in presenza.  

ATTENZIONE  a non far rientrare la DAD nel tempo scuola come modalità blended (integrata) e a non deliberare comunque riduzioni superiori ai dieci minuti di lezione, poiché in questo caso sarebbe previsto il recupero indipendentemente dalle motivazioni che hanno generato la riduzione.

La deriva delle scuole autonome allo sbaraglio può riservare brutte sorprese: non scaviamoci la fossa con le nostre mani.

DA MAGGIO SIAMO SCESI IN PIAZZA MOLTE VOLTE PER CHIEDERE LE RISORSE NECESSARIE AD APRIRE LE SCUOLE IN SICUREZZA. DOBBIAMO AVERE LA FORZA E LA CONSAPEVOLEZZA PER PRETENDERLO

POLITICAL DIVIDE

Immaginate di svegliarvi un mattino e, mentre state bevendo il vostro primo caffè, di imbattervi in questa notizia.

AVVISO PUBBLICO

“IL COMUNE DI VATTELAPESCA ASSEGNA ATTREZZATURE GRATUITE A PERSONE CON DISABILITA’ MOTORIE GRAVI”

Incuriositi scorrete il testo fino al capoverso “COME PRESENTARE DOMANDA”

“Le persone con disabilità motorie gravi devono presentare domanda cartacea recandosi di persona all’ufficio comunale X in via Y, interno Z, 12° piano senza ascensore”

Il caffè tende ad andarvi di traverso e il vostro pensiero va all’ennesima fake news.

Torniamo alla realtà che, purtroppo, supera di gran lunga la fantasia.

La Giunta regionale dell’Emilia Romagna ha deliberato un contributo di 5 milioni di euro per garantire a tutti i ragazzi delle scuole e della formazione professionale dell’Emilia-Romagna strumenti tecnologici e connettività. A questi si aggiunge la donazione di un milione di euro di Zanichelli editore, destinata a progetti rivolti ai bambini delle scuole primarie. https://formazionelavoro.regione.emilia-romagna.it/coronavirus/progetto-contrasto-divario-digitale

Tale delibera assegna ai Comuni la definizione delle modalità di programmazione e di gestione delle risorse.

Arriviamo al Comune di Bologna che, nell’atto di bandire un avviso pubblico PER LA PRESENTAZIONE DELLE DOMANDE DI ASSEGNAZIONE DELLE DOTAZIONI TECNOLOGICHE, PERSONAL COMPUTER E DISPOSITIVI DI CONNETTIVITA’ PER IL PROSSIMO ANNO SCOLASTICO 2020-2021 al punto 5, “Come fare domanda (termini e modalità di presentazione)” recita: “E’ possibile presentare le richieste per i PC portatili e/o le schede SIM dalle ore 9.00 del 22 giugno 2020 fino alle ore 13 del 7 luglio 2020 unicamente online collegandosi a https://servizi.comune.bologna.it/bologna/StudDevice2020 (accesso con credenziali SPID).”

Come dicevamo la realtà supera drammaticamente la fantasia.

Si chiede a famiglie di “studenti appartenenti a nuclei in carico ai Servizi sociali la cui condizione di vulnerabilità economica e/o sociale non consenta di garantire il diritto allo studio” di utilizzare mezzi e modalità informatiche per ottenere strumenti informatici necessari a superare il loro digital divide.
A questo punto il problema maggiore non è il Digital Divide ma la Political Divide dove il divario si situa tra gli atti amministrativi e la realtà.

14/06/2020

COBAS SCUOLA BOLOGNA

Basta con la Didattica a Distanza, la Scuola è un’altra cosa, a settembre tutte/i in classe in sicurezza

TUTTE/I A SCUOLA IN SICUREZZA

NO ALLE CLASSI POLLAIO

SI ALL’ASSUNZIONE DI DOCENTI E ATA

SI A INVESTIMENTI NELL’EDILIZIA SCOLASTICA

Basta con la Didattica a Distanza, la Scuola è un’altra cosa,

a settembre tutte/i in classe in sicurezza.

Nel corso degli anni, abbiamo assistito a un costante incremento del numero di alunne/i per classe, che oggi, sulla base delle norme esistenti potrebbero arrivare fino a 30 e oltre. Invece di ridurre le “classi pollaio”, come affermato pubblicamente, il Governo, tramite gli Ambiti Territoriali Provinciali (gli ex Provveditorati) sta comunicando in questi giorni che salteranno molte prime classi della scuola secondaria di I e II grado e molte terze classi nella secondaria di II grado.

In queste condizioni, è penalizzato il percorso didattico-educativo e non è garantito nessun “distanziamento”.

In sostanza, invece di consentire la ripartenza della didattica in presenza a settembre con aule meno affollate, il Ministero preferisce approfittare dell’occasione per ridurre classi e organici e, nel frattempo, carica su docenti e ATA tutte le difficoltà legate al recupero delle attività che in quest’anno scolastico non si sono potute svolgere per effetto dell’attuale sospensione.

Perfino la misura urgente di stabilizzazione dei precari che già lavorano da anni nelle scuole è stata vanificata dall’ipocrita litania sulla meritocrazia, come se i docenti senza abilitazione non fossero già parte strutturale del corpo docente da anni e in misura sempre crescente, come se dopo quattro mesi di chiusura delle scuole ancora non fosse chiaro e degno di allarmata attenzione lo stato prossimo al collasso in cui si trova la scuola. Basti pensare alla situazione dei posti di sostegno, coperti in molte scuole da più del 50% da insegnanti precari. Il risultato sarà quello di arrivare all’inizio di settembre con un ulteriore elemento di incertezza dovuto al fatto che più di un quarto dei docenti saranno supplenti.

Non è ammissibile che si pensi di affrontare l’inizio del nuovo anno scolastico aumentando l’orario di lavoro dei docenti (è questo che significa, alla fine dei conti, realizzare unità orarie di 40 o 45 minuti!!!), come sembra emergere dai documenti dei vari comitati di esperti incaricati di trovare soluzioni a costo zero, oppure riducendo le prerogative degli organi collegiali e affidando la gestione della riapertura all’autonomia delle singole scuole e alla “creatività” dei loro dirigenti, come propone di fare l’ANP.

Piuttosto che pensare soltanto a finanziare DaD e attrezzature digitali, costringendo docenti e famiglie a supplire a quanto il Ministero non vuole fare, sono necessari:

 un rovesciamento delle politiche degli ultimi trent’anni di dimensionamento e accorpamento degli istituti: con un ripristino delle “scuole di prossimità” (così come è necessario ripristinare una sanità di prossimità);

interventi incisivi di welfare studentesco: trasporti e libri di testo gratuiti, per tutti gli ordini e gradi di scuola, bonus studio, interventi previdenziali per genitori. la riduzione del numero di alunni/e per classe;un conseguente e consistente incremento dell’organico docente, a cominciare dall’immissione in ruolo dal primo settembre 2020 di TUTTI i 200.000 precari che hanno lavorato quest’anno e di quelli che comunque hanno alle spalle 3 anni di servizio; un conseguente e consistente incremento del personale ATA che garantisca la riapertura delle scuole in sicurezza senza che questo si traduca in un sovraccarico di lavoro sulle spalle di un personale numericamente insufficiente;  l’utilizzo di tutte le risorse interne alla scuola (ore di potenziamento e tutte le risorse legate al FIS) per attività e progetti legati all’aiuto degli alunni e delle alunne in difficoltà e per l’attività didattica ordinaria;la ricerca e l’utilizzo di risorse esterne alla scuola (dai PON ai finanziamenti di enti pubblici e soggetti privati) che abbiano esclusivamente lo stesso obiettivo del punto precedente;  interventi urgenti edilizia scolastica con stanziamenti consistenti (almeno un punto di PIL in più destinato alla scuola), per acquisire, adeguare e attrezzare classi, palestre, laboratori, spazi aperti;  un ripensamento non solo dell’architettura scolastica ma anche degli spazi urbani a misura di bambini/e, ragazzi/e;


Il diritto all’istruzione, non può diventare un fatto privato.

  Insieme con studenti, studentesse e genitori, i Cobas mettono al centro la difesa della scuola pubblica statale, in tante situazioni unico presidio di partecipazione e democrazia.

BASTA PROPAGANDA

LA SCUOLA, COME LA SANITÀ, DOPO ANNI DI TAGLI MILIARDARI, HA BISOGNO DI UN FINANZIAMENTO STRAORDINARIO

Il giorno 6 giugno, a Bologna, come in altre città italiane
RIAPRIAMO la scuola in piazza!

Riapriamo le piazze alla SCUOLA!
L’appuntamento è alle 16 in Piazzale Jacchia, presso i Giardini Margherita.

Cobas Scuola Bologna


Gli aggiornamenti li trovate su facebook
03 giu 2020 cobasbol@gmail.comFacebookRssYoutubePrivacy policyQuesto sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al suo funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.

La scuola in piazza. Non c’è sicurezza senza risorse

Vogliamo riaprire le scuole alla didattica in presenza, alla vita sociale e affettiva di bambin* e ragazz* che in questi mesi sono stati abbandonat* a se stess*, tutelando la salute di tutta la comunità scolastica.
Un piano straordinario per la scuola è urgente, necessario e giusto.

Come è possibile che lo Stato destini decine di miliardi alle imprese private e riservi alla scuola pubblica solamente 1 miliardo e mezzo per due anni?

Gli stanziamenti sono del tutto insufficienti e laddove sarebbe necessario investire in spazi adeguati, incremento massiccio dell’organico e misure di prevenzione, ci si preoccupa di “device” e connettività.

Per questo le misure presentate in questi giorni non offrono alcuna certezza sui modi della riapertura a settembre.
E’ verosimile immaginare che, senza gli interventi urgenti appena menzionati, al primo allarme bambin*, adolescenti e insegnanti saranno di nuovo rispediti a casa.

In questi ultimi giorni inoltre:

  • è scomparso ogni riferimento al reperimento di risorse straordinarie per la scuola pubblica;
  • vengono proposte riduzioni del tempo scuola;
  • si lascia via libera al fai-da-te delle singole istituzioni e all’arbitrarietà dei singoli dirigenti di decidere turnazioni/alternanze e utilizzo di didattica a distanza (già dalla scuola media! E nonostante il disastro didattico e relazionale che abbiamo vissuto in questi mesi).

Di fronte a un probabile naufragio si spinge sul “si salvi chi può”, si rinuncia così all’idea di un diritto garantito a tutti allo stesso modo.

E ancora:

  • si propone l’esternalizzazione della scuola pubblica mediante ricorso a cooperative o volontariato;
  • non si capisce come si vogliano superare le classi-pollaio;
  • è stata bloccata la stabilizzazione dei/delle docenti precari/ie che da anni lavorano nelle scuole, con il risultato di avere in previsione oltre 200.000 precari in servizio a Settembre.

Tutto ciò è pericoloso non solo per la ripresa a settembre, ma anche (e soprattutto) per il futuro della scuola pubblica.
Questi disordinati brandelli di un’ipotetica soluzione prefigurano in realtà una pericolosa destrutturazione della scuola pubblica che non ha precedenti.

Pochissimi, tra i fondi ingenti che si stanno stanziando per uscire dall’emergenza creata dal Covid 19, sono destinati all’istruzione e all’educazione.

Di fronte a questo scenario ribadiamo: Priorità alla scuola!

L’istruzione e la sicurezza sono diritti.

Genitori, student*, insegnanti, personale ATA, educatrici ed educatori: di nuovo insieme, di nuovo in piazza.

Appuntamento sabato 6 giugno, alle 16, ai Giardini Margherita (Piazzale Jacchia).

Firma (in aggiornamento):

CESP Centro studi per la scuola pubblica
Cinnica
Cobas Scuola
Coordinamento precari/ie della scuola Bologna e Modena
Rete Bessa
SGB – Sindacato Generale di Base

Per info e adesioni           

6giugno_scuola@libero.it

347.284.3345

340.463.0240

348.919.6123

La scuola primaria a confronto con la contemporaneità di Gianluca Gabrielli

di Gianluca Gabrielli pubblicato qui

Introduzione

Ho scelto di “tradire” in parte i termini cronologici proposti nel titolo dei Cantieri della didattica (1948-2018) e mi sono riferito ad un periodo più ampio, considerando la contemporaneità pressapoco estesa a tutto il Novecento, cioè agli ultimi 120 anni. La ragione è duplice: da una parte ritengo che, riferendosi ai bambini e alle bambine che iniziano a costruire la loro immagine del passato, il riferimento temporale ampio sia più funzionale al lavoro didattico; dall’altra, le trasformazioni normative degli ultimi anni hanno reso problematico in questo livello scolastico l’insegnamento dell’intera storia contemporanea, questione che è quindi opportuno affrontare in modo complessivo.

1. La «storia del Novecento» negli ultimi venticinque anni di riforme

Dal secondo dopoguerra al 1985

Nel secondo dopoguerra la scelta, che era stata spinta all’estremo dal fascismo a fini propagandistici, di insegnare a scuola la storia fino al presente venne capovolta dalla nuova classe dirigente repubblicana, timorosa di far affrontare a scuola le perturbanti vicende del Ventennio e le origini conflittuali e laceranti della Repubblica. Così i Programmi Ermini (1955) suggerivano come terminus ad quem di «dare un maggior risalto al Risorgimento nazionale [leggi: Grande guerra], nell’ultimo anno del ciclo»[1].

Questi rigidi parametri cronologici che escludevano la storia recente iniziarono ad essere sgretolati negli anni successivi da esperienze provenienti “dal basso”. Da una parte le iniziative prodotte negli anni Sessanta dagli Istituti della Resistenza, anche se pensate soprattutto per le scuole secondarie[2]. Dall’altra le numerose esperienze condotte nel decennio attorno al Sessantotto da gruppi (minoritari) di maestre e maestri, in gran parte afferenti al Movimento di cooperazione educativa, che fecero irrompere i temi dell’«attualità», il fascismo e la Resistenza, in pratiche didattiche innovative spesso “costruite” direttamente dentro le scuole.

Fu però solamente con i nuovi Programmi del 1985 che le innovazioni – lentamente penetrate anche in molti sussidiari – ebbero un riconoscimento ufficiale. Nel testo ministeriale veniva suggerito l’uso di una «periodizzazione essenziale», un «quadro cronologico a maglie larghe» nel cui ambito affrontare gli avvenimenti principali della «storia generale»: «a partire dal terzo anno della scuola elementare, si avvierà uno studio che progressivamente porti il fanciullo dalla interpretazione della storia del suo ambiente di vita alla storia dell’umanità e, in particolare, alla storia del nostro Paese», con uno «specifico riferimento al processo che ha condotto alla realizzazione dell’unità nazionale, nonché, alla conquista della libertà e della democrazia»[3].

Dal decreto sul Novecento alle riforme dei cicli

Qualcosa di radicalmente nuovo accadde nel 1996 quando il Dm 682 del ministro Giovanni Berlinguer ridefinì la collocazione dei contenuti all’interno dei programmi di tutti i gradi scolastici per valorizzare la storia del Novecento. Ciò produsse anche nella scuola elementare un richiamo a tutto il ventesimo secolo, estendendo quindi i termini del curricolo ministeriale oltre il 1945. Nel testo del decreto il riferimento non era ad una classe in particolare  ma genericamente al secondo ciclo (terza-quinta): «Nella scuola elementare i docenti del secondo ciclo introdurranno la conoscenza dei più importanti eventi dell’ultimo secolo, tenendo presenti le capacità e i modi di apprendimento propri degli alunni e l’esigenza di un continuo riferimento alla concreta realtà in cui essi sono inseriti»[4]; nella pratica l’applicazione avveniva nel secondo quadrimestre della quinta classe. Quindi la situazione nell’ultimo lustro del secolo scorso era la seguente: «storia generale» affrontata di fatto tra la terza e la quinta classe, scansione cronologica a maglie larghe senza imposizione di specifici contenuti, invito a trattare la contemporaneità superando il limite del 1945.

Su questa situazione si innestò il primo tentativo di riordino dei cicli, promosso dal ministro Berlinguer e proseguito da Tullio De Mauro. Il progetto non andò a buon fine, disapplicato dal successivo governo, ma le ipotesi formulate (e il grande dibattito che suscitarono)[5] permettono di porre l’attenzione su molti aspetti, alcuni in seguito caduti, altri ripresi – pur con differenze – nei successivi interventi ministeriali.

L’ipotesi prevedeva una riorganizzazione delle scuole elementari e medie, unite e contratte a 7 anni. Coerentemente con questa riorganizzazione dei docenti la riforma prevedeva una nuova scansione dei curricoli. Per quanto riguarda la storia i sette anni venivano riorganizzati in 2+2+3, con i primi quattro anni affidati alle maestre e ai maestri. Per loro era previsto nel secondo biennio un lavoro più prettamente sociologico sui «quadri di società», intesi come palestre per una costruzione della conoscenza degli elementi di base delle diverse forme storiche di società (nell’ordine: società dei cacciatori-raccoglitori, degli agricoltori-allevatori, società industriali). Gli elementi così esperiti sarebbero poi divenuti utili come prerequisiti di conoscenza nella fase successiva che prevedeva lo studio della «storia generale», affidato in un unico ciclo ai docenti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado[6].

Il nuovo ministero di Letizia Moratti bloccò l’applicazione della riforma Berlinguer-De Mauro e iniziò a lavorare su un nuovo progetto. Veniva annullata la riduzione di un anno del ciclo di base, mentre nella scansione dei contenuti veniva confermata l’idea, introdotta da Berlinguer-De Mauro, della verticalizzazione del curricolo di storia, ora assegnato però in parte alla scuola elementare (ora primaria) e in parte alla scuola secondaria di primo grado.

Veniva inoltre riscritto il testo con specifiche scansioni dei contenuti relative alle classi. Nel primo biennio (classi seconda e terza) iniziava lo studio della «storia generale» e tra i contenuti di conoscenza previsti comparivano «La terra prima dell’uomo e le esperienze umane preistoriche» fino al «Passaggio dall’uomo preistorico all’uomo storico nelle civiltà antiche». Nel secondo biennio (quarta e quinta) lo studio proseguiva cronologicamente fino al nuovo terminus: «la civiltà romana dalle origini alla crisi e alla dissoluzione dell’impero» e «la nascita della religione cristiana, le sue peculiarità e il suo sviluppo»[7].

Anche queste Indicazioni non ebbero ampia applicazione. Il nuovo avvicendamento governativo produsse una loro riscrittura (ministero Giuseppe Fioroni) e il nuovo testo entrò in vigore nel 2007 mantenendo le scansioni organizzative tra primaria e secondaria di primo grado decise da Moratti[8]. Per quanto riguarda la storia le nuove Indicazioni prevedevano che «La conoscenza sistematica e diacronica della storia verrà realizzata fra il secondo biennio della primaria e la fine della secondaria di primo grado», quindi posticipavano l’inizio dello studio della storia generale alla quarta classe. Tra i traguardi al termine della quinta classe veniva prevista la conoscenza degli «aspetti fondamentali della preistoria, della protostoria e della storia antica».

Verso le Indicazioni 2012

Nel 2012 venivano pubblicate nuove Indicazioni[9], attualmente in vigore. Il testo della bozza venne sottoposto ad una consultazione di carattere nazionale[10] rivolta sia alle scuole sia ad altri organismi qualificati come le Associazioni professionali della scuola. La consultazione prendeva in considerazione anche gli elementi del curricolo di storia, in particolare la verticalizzazione del curricolo tra scuola primaria e secondaria di primo grado, che abbiamo visto affermarsi come cornice comune (pur con diverse articolazioni) tra i diversi progetti di riforma a partire da Berlinguer-De Mauro, ma che aveva suscitato un grande dibattito tra i docenti. In particolare tale aspetto era l’obiettivo polemico di una raccolta di firme partita nell’ottobre 2007 che difendeva la ripetizione ciclica della «storia generale» nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, sostenendo che «l’astrazione, la simbolizzazione, il modo di studiare, le possibilità di approfondire di un bambino sono profondamente diversi da quelli di un ragazzino, e proprio per questo è necessario un ritorno ciclico a livelli più approfonditi, per ripensare e scoprire nuovi orizzonti nelle proprie conoscenze e nelle proprie idee»[11].

Così nella domanda numero 15 della consultazione organizzata dal Ministero si chiedeva se ci fosse accordo o meno sul fatto che «l’impostazione di storia conferma, con alcune precisazioni importanti, il percorso cronologico unico tra scuola primaria e secondaria di primo grado». Il 47,5 % delle risposte andò sull’opzione «È una scelta condivisibile, perché consente di distendere i contenuti e di concentrarsi sulla qualità delle metodologie e degli apprendimenti»; ma l’area del dissenso era ampia (anche tenendo conto delle modalità di raccolta dei dati) e – nel complesso – maggioritaria: il 32,0 % sostenne che «Sarebbe opportuno ritornare a due percorsi distinti (con arco cronologico ripetuto alle elementari e alle medie), perché più realistico e vicino alle nostre consuetudini didattiche»; il 20,5 % sostenne che «Bisognerebbe avere più flessibilità nella scansione temporale lasciando una maggiore autonomia alle scuole, per sfruttare meglio occasioni, opportunità, motivazioni degli allievi»[12].

Il risultato però venne considerato dal Ministero sufficiente a scegliere la formula dell’unico ciclo tra primaria e secondaria inferiore, con la «fine dell’Impero romano d’Occidente» come terminus ad quem temporale della primaria, lasciando tuttavia la «possibilità di apertura e di confronto con la contemporaneità».

Il recente (2018) intervento ministeriale Indicazioni nazionali e nuovi scenari non modifica il quadro generale; l’invito nell’ambito della disciplina storia ad «educare alla memoria, con una attenzione tutta particolare alle vicende del Novecento, comprese le pagine più difficili della nostra storia nazionale» sembra più riferito ai docenti della scuola secondaria di primo grado, anche se sicuramente costituisce un segnale di attenzione alla contemporaneità che va colto e valorizzato[13].

Quindi ricapitolando si può affermare che negli ultimi 25 anni si sono giocate molte battaglie su quale storia fare insegnare ai docenti delle scuole primarie (già elementari). Inizialmente – pur in maniera disorganica – il terminus ad quem per alcuni anni è stato avvicinato fortemente al presente (1996). Poi è divenuta dominante la convinzione che una verticalizzazione dell’insegnamento –  riducendo il numero di volte in cui si sarebbe insegnata la «storia generale» – sarebbe stata la chiave di volta della riforma. Questa idea è stata proposta già nel 2001 ed è divenuta norma organizzativa e curricolare tra il 2004 e il 2007, e nella sua forma attuale prevede che nella primaria (nell’ultimo biennio) inizi l’insegnamento della storia generale dal paleolitico alla fine del mondo antico. Aperture strutturali di spazi per una didattica della storia del Novecento non ne sono rimasti, se non nella formula generica del «confronto tra quadri storico-sociali diversi, lontani nello spazio e nel tempo» o nell’insegnamento trasversale (ma non declinato storicamente) di Cittadinanza e Costituzione[14].

2. Come è cambiata la didattica della storia nella scuola reale

La pratica didattica nelle classi non fa riferimento solamente ai programmi e alle scelte organizzative del ministero ma è il risultato della complessa interazione di numerosi elementi: le consuetudini dei docenti, le scelte degli editori e degli autori dei testi[15], le spinte provenienti dall’amministrazione (assetti organizzativi, contrattuali, formativi) e dal territorio (risorse culturali, spinte politiche). Rispetto all’insegnamento della storia quindi è utile analizzare sommariamente alcuni altri elementi che hanno contribuito in maniera significativa in questi ultimi 25 anni a configurare la situazione presente.

I test Invalsi e la ridefinizione della gerarchia tra le materie

L’introduzione dei test Invalsi nella scuola italiana ha costituito una pseudo-riforma che si è progressivamente estesa in tutti i gradi scolastici ma che nella scuola primaria ha avuto il terreno iniziale, la maggiore presenza nel tempo e – a parere di chi scrive – il maggiore effetto sulla trasformazione del curricolo reale, coinvolgendo indirettamente anche la didattica della storia.

Formalmente obbligatori dal 2004, i test coinvolgono tutti gli alunni di due classi della scuola primaria (attualmente le seconde e le quinte) per misurare le abilità in comprensione del testo scritto e in matematica. La rilevazione dei test funziona ormai da anni a pieno regime e viene utilizzata per formulare un giudizio sull’efficacia didattica degli istituti (e evidentemente anche dei docenti). Il teaching to test è quindi cresciuto rapidamente, entrando strutturalmente nelle pagine dei libri di testo e occupando una grossa fetta di mercato editoriale scolastico che offre prodotti specifici per l’ “allenamento”.

Questa affermazione dei test ha quindi mutato la sostanza della didattica in classe. La storia, insieme alla geografia, alle scienze e alle educazioni, è slittata nella percezione dei docenti e dei dirigenti ad uno status inferiore rispetto all’italiano e alla matematica (e all’inglese, da due anni sottoposto anch’esso ai test). Questo mutamento di percezione si è tradotto anche in un cambiamento delle proporzioni tra la quantità di tempo-scuola dedicato alle diverse discipline insegnate ed apprese. Non esistono studi specifici, ma dall’interno della scuola ciò appare evidente[16].

La verticalizzazione del primo ciclo

Anche su questo tema non esistono – credo – studi. Scrivo quindi sulla base dell’osservazione informale che ho potuto condurre in questi anni sulle consuetudini didattiche delle colleghe e dei colleghi di varie scuole. L’impressione è che anche questa ristrutturazione del curricolo che è emersa nel primo decennio del 2000 abbia prodotto una diminuzione di impegno dei docenti della primaria rispetto alla materia Storia. Provo ad articolare e a dare delle motivazioni a questa ipotesi.

I docenti della scuola primaria non hanno una preparazione specifica nel loro curricolo di studi per l’insegnamento della storia, né per quello di altre discipline. In alcune università esistono cattedre di didattica della storia e quindi si possono seguire corsi di quel tipo, ma è raro. Quasi mai gli esami di storia previsti nel curricolo universitario prevedono momenti di riflessione o laboratori sulla didattica. Ovviamente in passato tale preparazione specifica era ancora meno presente nel curricolo di studi (fino al 2001 era titolo abilitante il diploma di maturità magistrale).

Inoltre bisogna avere ben presente che un insegnante della scuola primaria deve essere in grado di insegnare tutte le discipline declinate per cinque diverse età degli alunni, dai sei agli undici anni. Questa dimensione generalista viene solo parzialmente limitata nel corso della carriera quando il docente riesce a stabilizzarsi in un plesso e a “specializzarsi” – per così dire – in tre-quattro discipline. Gli aggiornamenti sulla didattica quindi non possono che avere un carattere molto generale, raramente accade che un insegnante si aggiorni sulla storiografia relativa ad esempio agli Egizi (che pure è un contenuto centrale nella nuova strutturazione del curricolo), poiché risulta più utile seguire formazioni su tematiche trasversali o metodologiche che possano avere un uso scolastico non limitato.

Fra teoria e realtà

L’idea di chi ha proposto e introdotto la verticalizzazione evidentemente si fondava sull’ipotesi che una riduzione del periodo di «storia generale» da affrontare da parte dei docenti della primaria si traducesse in un aumento di competenza specifica su quel periodo. In realtà più si specializza un insegnamento, più sarebbe necessaria una conoscenza approfondita della materia per poterne preparare una buona articolazione didattica. Mentre nella vecchia formula in tre anni, dalla terza alla quinta classe, il docente poteva (doveva) scegliere gli argomenti principali attingendo a quelli più conosciuti poiché distribuiti nei circa cinquemila anni di «storia generale», con la riforma si trova a dover organizzare una didattica all’interno del mondo antico per ben due anni (in realtà tre, poiché i sussidiari continuano a far partire lo studio della storia generale in classe terza, seguendo la consuetudine che si era affermata prima del 2000). In questo modo sarebbe indispensabile una conoscenza più approfondita della storia romana, o greca, o egizia, o quelle della valle dell’Indo e della Cina, per riuscire a trattarle didatticamente per varie settimane riuscendo a mantenere un elevato interesse di alunne e alunni. Ma questa conoscenza specialistica è in contraddizione con la fisionomia generalista che caratterizza la maestra e il maestro. Nella pratica questa trasformazione della didattica non si verifica quasi mai, è molto più facile che una volta affrontate le generali conoscenze che sono suggerite dai sussidiari, i docenti decidano di dedicare il tempo rimanente ad altre discipline, o eventualmente alla preparazione di quei test Invalsi sulla cui base scatta la valutazione della loro efficacia didattica.

In passato quando l’arco temporale della storia generale era completo, l’insegnante era obbligato ad una selezione dei temi principali, presentati non per giungere ad una comprensione approfondita ma per inaugurare una prima conoscenza sulla base del profilo psicologico e culturale di alunni di quell’età, un primo approccio a temi che avrebbero costituito uno scheletro da riaffrontare con ottica diversa (e attraverso sensibilità e strumenti diversi degli allievi e delle allieve) nei gradi successivi. Per un docente era più facile articolare in tre mesi la didattica sull’invenzione della stampa a caratteri mobili, sulla scoperta (conquista) dell’America, sulla rivoluzione industriale e sulla rivoluzione francese piuttosto che lavorare tre mesi sulla civiltà greca senza scadere nel nozionismo.

I sussidiari

I testi proposti alle classi negli ultimi anni si sono moltiplicati in numero e pagine. Ad esempio in una quinta classe arrivano al bambino o alla bambina dai cinque ai nove volumi tra contenuti, eserciziari, atlanti e altro materiale didattico. La storia spesso è suddivisa in due o tre volumetti, nella seconda parte sono raccolte schede di verifica, test stile Invalsi, accenni a Cittadinanza e Costituzione, proposte di «compiti di realtà», link a percorsi sul web. Ovviamente i materiali sono per l’80 % legati al curricolo di «storia generale», le altre parti sono dedicate a riflessioni sulle tipologie di fonti o – ed è ciò che ci interessa in questo articolo – a richiami al presente. Soprattutto è nelle finestre relative a Cittadinanza e Costituzione che gli autori colgono l’occasione per parlare di tematiche di storia contemporanea. Scorrendo una quindicina di manuali proposti quest’anno[17], e seguendoli tra quarta e quinta classe, emerge che le finestre (due in media per manuale) sono legate al significato della Costituzione (quasi sempre collegata con le tavole di Hamurrabi), alla Democrazia (associata ad Atene e alle differenze tra democrazia ateniese e italiana contemporanea), alla condizione delle donne (associata alla società della Grecia antica, dei Cretesi o dei Romani), alla Shoah (associata immancabilmente in quarta classe alla presentazione del popolo ebraico nell’antichità), al ruolo delle biblioteche (associato alla biblioteca di Ninive), alle olimpiadi… Queste finestre servono a presentare il presente come diverso dal passato, non come il prodotto di un divenire storico.

Ad esempio: le finestre sulla Costituzione italiana non accennano quasi mai alla sua origine nella lotta contro il fascismo, ma presentano esclusivamente alcuni suoi articoli. Chi legge non riesce a cogliere la connessione con il tempo in cui essi furono emanati e neppure le motivazioni da cui presero origine, producendo l’impressione di una raccolta di principi autogeneratisi e non il prodotto di un processo storico.

Anche la trattazione della Shoah si apre dal nulla, e anche laddove, nei casi più virtuosi, vi siano cenni di contestualizzazione storica, le frasi scelte sono spesso reticenti, quasi cercassero di anestetizzare l’effetto nel lettore, privilegiando la dimensione morale e raccontando la storia del popolo ebraico quasi come un “destino” che si ripete da un’epoca all’altra.

Gli Istituti della Resistenza

Gli stessi Istituti che nello scorcio del secolo scorso erano divenuti importanti punti di riferimento per le scuole elementari relativamente alla storia della prima metà del Novecento, nel nuovo contesto privo della storia contemporanea hanno perduto quel rapporto privilegiato con le scuole. Certo, gli Istituti hanno una presenza sul territorio a macchia di leopardo e in nessun caso possono sostituirsi al lavoro autonomo nelle classi, ma la loro funzione di catalizzatori della didattiche sul Novecento era radicato e in crescita alla fine del secolo. Questo ruolo è venuto indebolendosi rapidamente con la nuova articolazione del curricolo, resistendo solo in situazioni particolari in virtù di legami personali o pratiche consolidate[18].

3. Qualche proposta sul presente

Nel contesto sopra descritto, come promuovere il tema della contemporaneità nella scuola primaria e come fare in modo che la sua trattazione risulti storiograficamente produttiva per alunni e alunne?

Lo sfondo integratore

Il primo problema da affrontare è la difficoltà a costruire degli interventi sugli ultimi 120 anni senza avere la possibilità di collocare questi avvenimenti in uno sfondo generale. Mi pare cioè decisivo e indispensabile lo sforzo di costruire progressivamente nelle classi uno sfondo integratore – materialmente una linea o mappa del tempo fabbricata insieme e sempre appesa in classe – che a ritroso parta dalla foto del gruppo classe in prima e che disponga gli avvenimenti emersi nelle discussioni secondo una datazione relativa, per poi scegliere due-quattro avvenimenti periodizzanti che siano utili a dare coordinate ad ogni nuovo evento citato o affrontato. Anche la storia ha bisogno di una mappatura di riferimento e le linee del tempo sono le sue specifiche coordinate: si possono costruire concretamente con i bambini a partire da una discussione su quali avvenimenti, popoli, oggetti essi ritengono facciano parte del «passato». Ad esempio, in una seconda non c’è bisogno di distinguere la prima e la seconda guerra mondiale, è l’età delle guerre in Europa che conoscono e che quindi deve essere visibile (l’età dei bisnonni, l’età degli aerei da guerra); nel corso dello sviluppo della didattica, questa trentina di anni di conflitti verranno sciolti e precisati, datati, riempiti di racconti e immagini[19].

In questo modo quando accade di ricordare o nominare la Shoah si potrà progressivamente collocarla dopo qualcosa e prima di qualcos’altro. Spesso da adulti non riusciamo a comprendere quanto siano utili ad un bambino o una bambina questi richiami per produrre un primo inquadramento di un avvenimento e in parte per farne maturare una prima provvisoria comprensione.

Il calendario civile

Abbiamo visto che la formulazione delle Indicazione del 2012 oltre ad essere non vincolante nei contenuti, lascia aperte possibilità per confronti, aperture verso il presente e la storia recente.

È in questo spazio ristretto che ci troviamo oggi ad operare per mantenere un collegamento della gioventù che ha fino ad undici anni[20] con la storia degli ultimi centoventi anni. Sia chiaro: un collegamento minimo allestito e gestito dalla scuola, perché invece il discorso pubblico produce abbondanti comunicazioni sul Novecento che però non vengono filtrate e non sono prodotte e articolate con intento didattico. Quello che manca prioritariamente è quindi un quadro in cui i bambini possano provvisoriamente collocare, comprendere e collegare le informazioni frammentarie ed episodiche che giungono da televisione e web sommergendoli.

In questo contesto si colloca la pratica dell’intervento didattico di tipo storico-civico a scuola seguendo il cosiddetto calendario civile. Nel 2017 Alessandro Portelli ha pubblicato Calendario civile, un’antologia di testi riferiti a date significative «per una memoria laica, popolare e democratica», come recita il sottotitolo, del passato nazionale, affidate a studiosi e corredate di documenti.[21] La proposta di Portelli è rivolta alla società civile, ma è in sintonia con qualcosa che già stava accadendo nella scuola primaria per ragioni in parte coincidenti, in parte come risposta all’azzeramento della storia contemporanea emerso dal vortice delle riforme. Nelle scuole infatti il calendario civile è stato il canale principale attraverso il quale continuare a parlare della storia recente ed ha fornito la formula per portare in classe principi condivisi.

Alcune date si sono affermate più di altre. La data immancabile è il 27 gennaio: la Shoah entra regolarmente nella scuola primaria e ha assunto la valenza di evento cardine del Novecento. La seconda data – che segue però ad una grande distanza – è il 25 aprile (e le sue articolazioni locali) che tra l’altro, essendo festa, ricorre a scuola chiuse. Altri temi scaturiscono da anniversari (ad esempio negli ultimi anni la Grande guerra).

Anche la pratica didattica del calendario civile deve però confrontarsi con problemi sostanziali. Prima di tutto, quando questi temi rientrano nel circuito della didattica, quasi mai vengono trattati storicamente. Essi diventano un’occasione per vivere un rito di etica civica, ma l’episodio che ne è all’origine e a cui rimandano non ha quasi mai l’agio di divenire narrazione e analisi storica, di caricarsi di complessità, di dispiegarsi nel tempo per proporsi alle classi come un percorso didattico articolato, con dei precedenti, delle motivazioni, delle conseguenze.

Inoltre, non bisogna dimenticare che il problema di contestualizzazione è anche geografico, seppure emerge in questo ambito con minore evidenza; infatti la riorganizzazione del curricolo ha verticalizzato anche la geografia, e la scuola primaria ha come ambito di studio prioritario l’Italia fisica e amministrativa. Mentre la consuetudine del passato proiettava lo sguardo in quinta classe sull’Europa e sui continenti extraeuropei, attualmente questo non è richiesto. Banalmente, il rischio è quello – ad esempio – di trattare la Shoah che prende forma in Europa nel contesto di una guerra mondiale senza avere costruito un background né sull’Europa né sugli altri continenti.

Quindi anche l’uso del calendario civile costituisce una strada che può essere percorsa e incrementata, ma che nella scuola primaria nasce con dei limiti oggettivi e che necessita di alcune attenzioni per evitare di cadere nella ritualità e nella celebrazione senza riuscire a giungere alla storia.

Occorre prima di tutto scegliere, senza farsi trascinare dalla voglia di seguire molte date e dalla paura di perdere le scadenze. Ogni data affrontata in un’unica occasione diviene inevitabilmente uno spot, un episodio che anche noi adulti facciamo fatica a collocare nel divenire. è nella capacità di contestualizzare un avvenimento che ci si gioca la differenza tra celebrazione e ricostruzione storica. Occorre non rincorrere tutte le scadenze ma scegliere quelle ritenute più interessanti o motivanti, dedicarvi un periodo ampio di tempo e quindi di ore di didattica; analizzare il prima, analizzare il dopo, cercare spezzoni di film, di interviste che permettano di riaffrontare il tema in forme diverse, cercare documenti rappresentativi da analizzare, aprire spazi di discussione improvvisati quando giungono sollecitazioni dai bambini e dalle bambine. Sono queste le espansioni che possono permettere anche in una quarta o quinta di scuola primaria di affrontare una data del calendario civile senza rimanere incastrati nella retorica.

Quali sono le date – i temi – che possono rientrare in questa proposta?

Il 25 aprile

Il fulcro del calendario civile del Novecento è certamente – per noi oggi – il 25 aprile[22]. Nessuna data assume nella scuola primaria tale potenzialità di connettere le altre date, tanta capacità di aprire discorsi che tengano insieme molti temi come il fascismo, la Resistenza, l’Europa, l’imperialismo, la possibilità di una declinazione locale, le memorie familiari…

Rispetto alle numerose esperienze didattiche proposte dalla rete degli istituti storici, si può aggiungere  una suggestione a partire dalla diversa composizione delle nostre classi: facciamoci spingere dai diversi background culturali presenti a raccontare le storie anche di chi non era italiano e ha combattuto e magari è morto in Italia, adesso che abbiamo la possibilità di guardare con occhi diversi alla composizione delle truppe che hanno combattuto nella penisola e abbiamo l’occasione di esplorare il planisfero dribblando l’italocentrismo del curricolo di geografia. Perché questa guerra era mondiale? Andiamo a cercare i paesi coinvolti, i colonizzati che dovettero combattere, i partigiani che avevano studiato nelle scuole fasciste e quelli che avevano passato l’infanzia da tutt’altra parte: dove? Mettere le loro immagini o i loro nomi in un grande planisfero può aiutare i giovani delle nostre classi a vedersi nel mondo e a vedere quanto mondo c’era nella guerra mondiale (come facciamo quando tocchiamo con mano la globalizzazione dei mercati incollando le etichette «made in» delle nostre magliette, degli smartphone e della frutta), ma può aiutare anche noi docenti ad arricchire attraverso l’esperienza didattica l’immagine italocentrica con cui abbiamo appreso questa pagina centrale della nostra storia.

27 gennaio

La Shoah ha sicuramente assunto negli ultimi anni una forza comunicativa ampia e spesso risulta l’unica apertura alla contemporaneità praticata in classe nella scuola primaria. La crescita di conoscenza – anche indiretta – che questo processo ha portato nelle nostre classi è preziosa, ma occorre che gli insegnanti sappiano proporsi come filtro delle molteplici informazioni e stimoli che arrivano dai mass media, trasformando questa grande attenzione per l’argomento in percorsi didattici utili ad affrontarne la comprensione nel contesto della storia del secolo scorso. Il rischio di considerare questo tema come risolutivo nella comprensione del Novecento è quindi forte, almeno altrettanto quanto il rischio di vederlo “celebrato” in una narrazione edulcorata, irrelata dalla storia e consumata completamente il 27 gennaio. Anche qui l’unico antidoto è la storia, la capacità degli insegnanti di usare la popolarità del tema e della comunicazione stereotipata su di esso per riorganizzarlo in classe collegandolo agli altri elementi della storia coeva, ai precedenti, alla guerra, alla conoscenza  dell’ebraismo, dell’antisemitismo e del razzismo.

8 marzo

La questione di genere è un tema di grande importanza cui è possibile dare una declinazione anche storiografica. Sappiamo con quale forza spesso il mondo della comunicazione sommerge i bambini e le bambine di stereotipi sessisti. Proprio per questo già dalla scuola dell’infanzia le riflessioni collettive e i confronti sull’argomento possono accompagnare la vita quotidiana nelle classi mettendo criticamente in discussione gli stereotipi. Risulta quindi utile provare a fornire stimoli anche storiografici a queste discussioni e dare una dimensione diacronica al racconto della parità dei diritti. Sembra un aspetto banale, ma significa mostrare che l’identità di genere e la costruzione dei diritti non sono aspetti di natura ma di storia, che hanno a ché fare con il potere e che sono stati oggetto di conflitti. La stessa storia della giornata dell’8 marzo, con i suoi intrecci tra origini mitiche e origini storiche sembra fatta apposta per essere raccontata in una scuola primaria, nella quale il compito precipuo è proprio quello di distinguere mito e storia, senza però togliere al mito il suo fascino e il suo valore storico. Le attività possibili sono svariate. Ad esempio lavorare sull’immagine che i libri di testo o i fumetti nel passato davano dei rapporti di genere , aprendo piccoli laboratori di analisi e di ricerca delle fonti, perché lavorare sui materiali prodotti per i bambini ha il vantaggio di orientare il lavoro di decodifica e interpretazione su contenuti familiari alla percezione degli alunni.

1° maggio

La tendenza recente della didattica elementare all’infantilizzazione dei temi, combinata alla sostituzione del modello del consumatore a quello del lavoratore, hanno prodotto un universo infantile e scolastico in cui il consumo appare svincolato dal lavoro e dalla produzione. Riconnettere il mondo delle merci ai processi che sono alla base della loro produzione (sempre più globalizzata) e alle persone in carne ed ossa che con il loro lavoro e la loro fatica le producono è un compito immane ma doveroso. La giornata del 1 maggio può sicuramente diventare l’occasione per organizzare interviste e risalire passo passo a ritroso nel tempo, dal presente terziarizzato agli anni del boom e anche più indietro, sfiorando dimensioni come quelle del denaro (come retribuzione) e delle differenze di classe sociale che – a dispetto della volgata dominante – continuano ad essere parametri importanti per comprendere la realtà.

3 ottobre

Venticinque anni fa nelle scuole italiane i cosiddetti “stranieri”, cioè studenti privi di cittadinanza italiana, costituivano lo 0,7 % del totale; oggi le statistiche ci dicono che questa percentuale è salita ad uno su dieci circa[23]. In molti casi si tratta di stranieri sui generis, perché l’Italia è ancora inchiodata ad una legge sulla cittadinanza legata allo ius sanguinis tanto che molti bambini nati e cresciuti in Italia risultano sono però giuridicamente stranieri se i loro genitori sono tali. Le cittadinanze di questi nostri allievi e allieve sono le più varie: Europa dell’est, Asia, Africa, Sudamerica, il mondo finalmente sta entrando nelle nostre aule. Uno studente su 10 ha background culturali misti, ha genitori e nonni che hanno vissuto i conflitti della decolonizzazione o le oppressioni del socialismo reale, e bisnonni che si difendevano (o negoziavano le briciole) dall’oppressione coloniale occidentale di Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Germania, Italia…[24].

Questo processo di cambiamento ha già una data di riferimento: quella del 3 ottobre, che ricorda il naufragio a Lampedusa, nel 2013, di una carretta del mare in cui morirono 368 persone, in gran parte eritree. Che sia in ottobre, oppure il 1° marzo (che per alcuni anni è stato il giorno dello sciopero dei migranti), oppure in un qualsiasi periodo dell’anno, è indispensabile portare in classe questo tema – diseguaglianza nel mondo e migrazioni – ed è importante declinarlo anche storicamente, raccontando degli italiani e dei polacchi in America, degli italiani in Svizzera, degli algerini in Francia, dei cinesi che costruirono la ferrovia transcontinentale negli Stati Uniti…; spiegando perché si parte: le guerre, le risorse che mancano, i diritti violati, il desiderio di nuove prospettive… Come sempre basta scegliere una di queste piste, e seguirla con pazienza in modo da costruire passo dopo passo anche una conoscenza storica della questione, per aiutare i nostri giovani a capire che quando vedono i telegiornali che parlano degli «sbarchi», stanno guardando un presente che si fa storia.

I cambiamenti nella società

Per concentrarci in particolare sul periodo posteriore al 1948 credo che nella scuola primaria si debba provare ad inquadrare e a tematizzare la grande svolta avvenuta in Italia e nella società occidentale a partire dal boom economico. Occorre cioè concentrarsi sugli aspetti dei quadri storico-sociali di vita che in questo periodo sono mutati rapidamente. La perdita del mondo contadino, le trasformazioni nei modi di vita indotte dallo sviluppo economico impetuoso, le migrazioni interne, l’affermazione del consumismo cambiano profondamente la quotidianità della vita e il nostro sguardo sulla realtà.

Inquadrando queste tematiche abbiamo la possibilità di agire a ritroso, di far conoscere o riconoscere questi aspetti a partire dalle differenze che presentano rispetto al presente. È un approccio di tipo storico sociale, pur declinato per bambini della primaria. L’abituale lavoro di conoscenza delle due generazioni precedenti (madri-padri e nonne-nonni) diviene anche un’occasione per attraversare i mutamenti delle consuetudini di vita, degli oggetti, delle forme della comunicazione, della scrittura, del lavoro. Basta recuperare e mettere in fila gli apparecchi per telefonare, per ascoltare la musica, per scrivere degli ultimi 60 anni per avere a disposizione un piccolo museo della tecnica che può rivelarsi uno stimolante punto di partenza – soprattutto attraverso il metodo dell’intervista – per risalire dall’oggetto alle persone e ai racconti.

Guardare la Costituzione con gli occhiali della storia

L’insegnamento trasversale di Cittadinanza e Costituzione può anch’esso, se utilizzato in modo opportuno, permettere di aprire finestre sul Novecento, riaffermando che la costruzione di una coscienza civica e democratica non si apprende sulle regole del diritto, ma comprendendo i processi storici che ne sono all’origine. Quindi lo studio della della Costituzione in classe non deve ridursi alla presentazione e al commento delle norme giuridiche, ma deve riportarci alla Costituzione come crogiolo di idealità e speranze maturate nell’ambito della Resistenza, e quindi come risultato storico di una lotta contro il Fascismo e il Nazismo, come punto di partenza per una storia di battaglie per l’uguaglianza, la giustizia e la parità dei diritti che continua dal 1948 fino al presente.[25] Se intesa in questo modo, allora non ha senso, come invece fanno i sussidiari – parlare di Costituzione senza parlare di fascismo, senza studiare Mussolini e i balilla e le violenze e il bellicismo e l’imperialismo in Africa e nei Balcani, terre native dei bisnonni di molte nostre alunne e alunni. Certo è difficile, comporta scelte di tempo e di indipendenza didattica. Ma solo così ha senso parlare ad una bambina nata nel 2010 a Bologna con la bisnonna vedova del marito che morì combattendo in Russia o a un bambino del 2011 con il bisnonno che ha subìto il colonialismo francese o belga o italiano. Ovviamente è già un ottimo risultato se nella scuola primaria si riesce ad imbastire e a trasmettere l’idea di una Carta che trae la sua origine da una lotta storicamente realizzata e non da un’idea astratta di giustizia.

Conclusioni

In conclusione credo che ci si debba porre una ulteriore domanda: a noi questa organizzazione del curricolo di storia della scuola primaria, a quindici anni dall’adozione, ci convince? Alcuni dei limiti che ho provato ad illustrare sono reali? E se alcune delle problematiche descritte hanno fondamento, è possibile aprire nuovamente una discussione pubblica sul modo di affrontare la «storia generale», sul metodo e la costruzione dei concetti e sulla didattica della storia recente nella scuola primaria? è ragionevole riaprire un dibattito su quale didattica della storia affidare a quella particolare categoria di docenti che sono le maestre e i maestri generalisti della scuola primaria?

Io credo che sia necessario. Credo che gli Istituti della Resistenza e dell’Italia contemporanea possano essere attori in questa discussione che non presenta certo soluzioni facili, che da una parte deve prendere atto dei cambiamenti intervenuti negli ultimi vent’anni, ma che allo stesso tempo può considerare tale realtà come modificabile. Riaprire la discussione, a partire dalla raccolta dell’opinione degli stessi insegnanti, sarebbe già un grosso passo avanti, fare finta di nulla credo non serva a nessuno.


Note:

[1]Dpr 14 giugno 1955, n. 503.

[2]Vedi ad esempio L. Borghi, G. Quazza, A. Santoni Rugiu, C. Dellavalle (a cura di), Libri di testo e resistenza. Atti del Convegno nazionale tenuto a Ferrara il 14-15 novembre 1970, Roma, Editori riuniti, 1971.

[3]Dpr 12 febbraio 1985, n. 104.

[4]Dm 4 novembre 1996, n. 682, art. 5.

[5]Ampia rassegna di testi normativi approvati, proposte normative e interventi al dibattito nella pagina web Sissco dedicata a La riforma dei cicli e la storia <http://www.sissco.it/articoli/la-storia-contemporanea-nelle-scuole-superiori-1345/la-riforma-dei-cicli-e-la-storia-1346/> [8-5-2019].

[6]«Lavorando empiricamente su un numero limitato di esempi, il bambino imparerà a riconoscere e distinguere le caratteristiche dei fondamentali modelli di società […] L’insegnante sceglierà i quadri di società in modo da presentare casi esemplari relativi alla società di caccia e raccolta, alle società agricole, con particolare attenzione alla dimensione urbana, a quelle pastorali, e alla società industriale, equilibratamente ripartiti nel tempo e nello spazio», Indicazioni per il curricolo dell’ambito storico-geografico-sociale per la scuola di base, 2001.

[7]Miur, Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella scuola primaria, 2004, pp. 22-23, 35-36.

[8]Miur, Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione, 2007.

[9]Miur, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, Decreto 16 novembre 2012, n. 254. Regolamento recante indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, a norma dell’articolo 1, comma 4, del dpr 20 marzo 2009, n. 89.

[10]Cm Miur  31 maggio 2012 n. 49.

[11]Si tratta del «Manifesto per la riconquista dei Programmi Nazionali e la difesa della libertà d’insegnamento», primi firmatari M. Balsamo, R. Dondarini, M. Pieralisi, R. Roberti, L. Varaldo; l’appello era stato redatto in ottobre del 2007 nell’ambito del Festival della storia di Bologna e mescolava vari temi ma partiva dalla contestazione del curricolo di storia; <http://manifestodei500.altervista.org/wp-content/uploads/2007/12/proposta_bo_con_primi_400.pdf> [8-5-2019].

[12]Nella rassegna delle risposte (4551) viene comunicato che esse provengono solo per il 29,3% «da un gruppo degli insegnanti su mandato del collegio dei docenti», per il 21,8% «da un gruppo informale di docenti», mentre la maggior parte delle risposte viene prodotta dai soggetti più implicati nella realizzazione delle trasformazioni: «dal dirigente e/o dal suo staff»: 49,9%.

[13]Miur, Comitato scientifico nazionale per le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 2018, p. 10, <http://www.indicazioninazionali.it/wp-content/uploads/2018/08/Indicazioni-nazionali-e-nuovi-scenari.pdf> [8-5-2019].

[14]Legge 169 del 30 ottobre 2008; già nel 2006 era stata istituita l’attività educativa e didattica unitaria denominata Educazione alla cittadinanza, senza scansioni annuali e non organizzata secondo parametri storici: Miur, Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati nella scuola primaria, 2004, p. 47.

[15]Maila Pentucci, Il manuale scolastico e la trasposizione dei saperi storici. Un esempio di analisi, Novecento.org, n. 12, agosto 2019.

[16]Per una disamina critica verso i test nella scuola primaria: G. Gabrielli, Insegnare per test. La scuola primaria e lo spirito del tempo, “aut aut”, 358, 2013 <https://issuu.com/autaut/docs/gabrielli> [8-5-2019].

[17]Cittadini del XXI secolo (Mondadori Education, 2019), Esplora il mondo (La scuola, 2019), Che saperi (Rizzoli education (Fabbri – Erickson, 2019), Studio così (Cetem, 2019), On. Accendi la mente, (Pearson, 2019), Terramare (Giunti, 2019), Le fantastiche quattro (Rizzoli, 2018), Sussidiario delle discipline (Gaia, 2019), Campo base (Giunti Del Borgo, 2019), Grandi scoperte (Pearson, 2018), Nati per conoscere (Mondadori, 2018), Passo dopo passo nelle discipline (Tredieci, 2019), @discipline.it (Eli – La spiga, 2018), Capire il presente (Mondadori, 2017), Che idea (Gaia, 2017), Che magie (Rizzoli, 2019), Il tempo delle idee (Giunti, 2018), Imparare a 360 gradi (Pearson, 2017).

[18]Basti pensare che nelle schede rilevate sulle buone pratiche organizzate dagli Istituti sul periodo 1948-2018, solamente 3 su 173 riguardano anche la fascia della scuola primaria. Ovviamente il baricentro è spostato indietro sulla Resistenza e sul fascismo, e quindi non compare nella rilevazione, ma il dato è comunque indicativo di una perdita di centralità di questa fascia scolastica. Sui risultati del rilevamento effettuato in questa primavera vedi il testo di Flavio Febbraro e Andrea Saba in questo dossier.

[19]Cfr. G. Gabrielli, Costruire linee del tempo nella scuola primaria, Novecento.org, n.. 13, febbraio 2020.

[20]In realtà fino a tredici o quattordici anni, poiché la storia del Novecento viene affrontata per la prima volta a quella età)

[21]A. Portelli (a cura di), Calendario civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Roma, Donzelli, 2017.

[22]Anche il già citato documento del Miur del 2018 vi fa esplicito riferimento: «Particolarmente significativo risulta il ricordo delle lotte di liberazione e del successivo momento di concordia nazionale che ha consentito di elaborare e poi di consolidare la nostra Costituzione», Comitato scientifico nazionale per le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, Indicazioni nazionali e nuovi scenari, 2018, p. 10, <http://www.indicazioninazionali.it/wp-content/uploads/2018/08/Indicazioni-nazionali-e-nuovi-scenari.pdf>.

[23]Miur, Gli alunni con cittadinanza non italiana, a.s. 2016/2017, marzo 2018 <https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/FOCUS+16-17_Studenti+non+italiani/be4e2dc4-d81d-4621-9e5a-848f1f8609b3?version=1.0>.

[24]è incredibile che in corrispondenza con il cambiamento del curricolo di storia nella scuola primaria si sia attuata una parallela riduzione della geografia insegnata nello stesso ordine di scuola alle caratteristiche dell’Italia, spostando alla scuola secondaria non solo l’approccio al mondo extraeuropeo, ma quello alla stessa Europa.

[25]C. Marcellini, Cittadinanza e Costituzione… «Mamma mia»!, Novecento.org, n. 12, agosto 2019.

NO ai pieni poteri alla ministra (o ai suoi suggeritori) e all’imposizione della didattica a distanza!!

NO AI PIENI POTERI ALLA MINISTRA (o ai suoi suggeritori) E ALL’IMPOSIZIONE DELLA DIDATTICA A DISTANZA!

SÌ AL RICONOSCIMENTO DELL’ IMPEGNO DI DOCENTI E ATA PER MANTENERE VIVA LA SCUOLA PUBBLICA COME PRESIDIO DI CIVILTA’ E CULTURA  ANCHE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS!

Nelle scuole italiane, come è stato riconosciuto da tutti, docenti e personale ATA hanno sinora garantito, nonostante l’emergenza, che non fosse interrotto il rapporto con gli studenti. In particolare, i docenti, con il loro lavoro volontario, sono riusciti a condividere con gli allievi ansie e paure e hanno mantenuto in vita, per quanto possibile, il percorso didattico-educativo. Il decreto legge sulla scuola, invece di accompagnare questo percorso, rischia di mettere la parola fine al clima positivo che si è determinato nella maggior parte delle scuole. Innanzitutto, il decreto legge per larghi aspetti conferisce, seppur con dei paletti, alle ordinanze ministeriali il potere di derogare tutta una serie di leggi, dando di fatto “forza di legge” ad un atto amministrativo e, quindi, poteri speciali al Ministro dell’istruzione. Vengono bypassati sia lo stesso CdM (seppur in parte), sia il Parlamento, ma non c’era alcuna ragione di ulteriore straordinaria urgenza per creare di fatto una nuova fonte del diritto. E’ una tecnica già usata per DL e DPCM, che rischia di diventare strutturale anche dopo la fase dell’emergenza, con un’ulteriore concentrazione personale del potere politico. 

Nel merito, che senso ha imporre la didattica a distanza quando nello stesso tempo si afferma pubblicamente che essa sta già funzionando positivamente?  E’ un oltraggio allo straordinario senso di responsabilità dimostrato dai docenti. Non solo: come si configura in concreto tale obbligo se un terzo delle famiglie italiane non ha computer o connessione, addirittura il 42% al Sud? E che significa l’obbligo nelle scuole in carcere, dove i docenti non hanno avuto fin qui alcuna possibilità di raggiungere i propri studenti, tanto che il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale ha dovuto scrivere una lunga Lettera ai Ministri dell’Istruzione, dell’Università e della Giustizia, per invitarli al rispetto del diritto all’istruzione in carcere? E che dire di una Ministra che, mentre chiede nell’emergenza a mezza Italia di attrezzarsi telematicamente in una settimana, non è poi in grado di garantire la digitalizzazione dell’aggiornamento delle graduatorie, benché essa fosse già prevista e non dettata dall’emergenza? E’ paradossale anche che, mentre il governo si affanna per dotare di potere d’acquisto chi è costretto a restare a casa, molti precari della scuola non ricevono da mesi lo stipendio, cosa particolarmente grave in una situazione di impoverimento generale di tante famiglie.

L’imposizione della didattica a distanza ha una sola motivazione: spingere perché diventi non uno strumento da usare solo nella fase emergenziale, ma qualcosa di strutturale, come se potesse sostituire la didattica in presenza, l’unica che può garantire la relazione interpersonale indispensabile per la crescita sia umana che cognitiva degli studenti. A tal proposito, sono preoccupanti le dichiarazioni sulla continuazione della didattica a distanza nella fase iniziale del prossimo anno scolastico. Invece, bisogna ridefinire subito i criteri di formazione delle classi, di tutte le classi, non solo di quelle pollaio. Va ridotto drasticamente il numero degli alunni per classe per garantire la salute di tutta la comunità scolastica, nonché dignità al lavoro docente e qualità didattica ai nostri studenti. Per garantire il regolare avvio del prossimo anno scolastico è, quindi, necessario prevedere l’immissione in ruolo, con concorsi per soli titoli e/o usando le GAE e le GM, di tutti i docenti precari che hanno maturato almeno tre anni di lavoro e di tutto il personale ATA già occupato per almeno 24 mesi. E’ di tutta evidenza che non sarà possibile esaurire tutti i passaggi del concorso straordinario, né tantomeno di quello ordinario prima di settembre: il Decreto invece, confermando questa strada, di fatto determinerà il caos nella fase di avvio del prossimo anno.

Dal punto di vista didattico se la scelta (e non poteva non essere così) è quella di ammettere tutti gli alunni alla classe successiva o agli Esami e modificarne la conduzione, l’organizzazione del lavoro deve essere conseguente. Non vanno, quindi, inventati sistemi di valutazione a distanza ridicoli e che inquinano il rapporto docente- studenti, oltre che essere palesemente illegittimi: non è pensabile valutare conoscenze e capacità se non è possibile garantire la necessaria vigilanza, né la privacy. Ma, visto che tutti gli alunni saranno promossi (o ammessi agli esami), si potrà procedere agli scrutini finali tenendo conto dei risultati del primo trimestre/quadrimestre, delle prove di recupero e delle votazioni del secondo periodo prima della sospensione dell’attività didattica. Si userà anche il periodo della didattica a distanza, non per mettere voti, ma unicamente per completare la valutazione degli allievi valorizzando tutti i feedback ricevuti. Coloro che insistono per i voti a distanza, in realtà, mirano a far passare una valutazione solo delle c.d. competenze, intese come mero “addestramento”, mentre la scuola deve valutare l’acquisizione dei saperi disciplinari (da non confondere con il nozionismo) e, tramite essi, lo sviluppo delle capacità cognitive, in termini di analisi, visione complessiva dei fenomeni, rielaborazione e sviluppo del pensiero critico. Chiedere oggi di mettere voti a distanza significa mortificare la professionalità dei docenti e svilire lo stesso lavoro degli studenti. Va rimarcato che il DL, nell’unico riferimento specifico alla valutazione, l’art.1 c.4 lett. a, prevede la possibilità di usare modalità telematiche solo per la “valutazione finale degli alunni, ivi compresi gli scrutini finali” e NON per la valutazione delle singole prove (con voti) con la didattica a distanza. Infatti, le norme derogabili citate (art. 2 D. Lgs n. 62/2017 e art. 4 DPR n. 122/2009) fanno riferimento solo alla valutazione periodica e finale. Anche la possibilità di svolgere il colloquio dell’Esame di Stato con “modalità telematiche”, è prevista in modo specifico, come deve essere per ogni deroga alle norme generali. Quindi, non si può desumere alcun obbligo specifico di svolgere valutazioni a distanza dall’obbligo generale delle prestazioni didattiche a distanza, tra l’altro previsto solo per il periodo di sospensione delle attività in presenza. Per il prossimo anno scolastico, toccherà alle singole scuole programmare le attività tenendo conto della eccezionalità di quanto avvenuto, individuando tempi e procedure che devono necessariamente essere coerenti con problemi e bisogni dei singoli alunni e delle singole classi. Sarà necessario stanziare gli adeguati finanziamenti per tali attività aggiuntive, ma il decreto prevede la solita formula del divieto di nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica.  Inoltre, la sospensione dei requisiti per l’ammissione all’ Esame di Stato relativi allo svolgimento dei quiz Invalsi e delle ore minime di PCTO (ex ASL) deve valere sia per quest’anno che per l’anno prossimo, perché altrimenti le attuali quarte classi si troverebbero a dover svolgere stage aziendali nell’ultimo anno di corso, già ingolfato per altri motivi. Anche per le terze il quantitativo minimo di ore andrebbe ridotto in proporzione.                                                                                            

 Infine, dato che questo decreto conferma che sino a oggi non c’era alcun obbligo rispetto alla didattica a distanza, chiediamo a quei dirigenti scolastici che hanno imposto, mediante circolari e ordini di servizio palesemente illegittimi, a docenti e alunni di lavorare come se la didattica on line fosse uguale a quella in presenza, non tanto di chiedere scusa, ma di pensare alle dimissioni. La scuola deve rimanere una comunità educante e non può essere il luogo dove sperimentare le proprie pulsioni autoritarie, a cui pare allinearsi in queste ultime ore anche la ministra Azzolina.

   Esecutivo nazionale dei COBAS – Comitati di base della Scuola

SPERIMENTAZIONI RISCHIOSE

Preservare e valorizzare il valore di presidio civile delle pratiche messe in atto da migliaia di docenti in queste settimane significa porre delle distinzioni e smarcarsi da diffusi comportamenti adottati in queste settimane da dirigenti e insegnanti nostr* collegh*, che non trovano fondamento nella normativa vigente né producono effetti positivi nella gestione della situazione presente.

In una precedente nota dei primi giorni dell’emergenza, http://www.cobasbologna.it/lettera-allusr-e-ai-dirigenti-delle-scuole-bolognesi-emergenza-covid-2019, avevamo già stigmatizzato i comportamenti inutili e dannosi di quant* tra i/le dirigenti si erano moss* fin da subito in veste di commissari straordinari con pieni poteri di direzione delle scuole. Comportamenti illegittimi sul piano sindacale – e non insistiamo qui su questo aspetto – ma soprattutto dannosi: muoversi sul terreno degli obblighi e delle imposizioni dall’alto significava annullare fin dal suo nascere il movente più profondo e significativo che animava il desiderio di incontrarsi, sia per le/i docenti che per le/gli studenti. Si trattava semmai di invitare e supportare, non di imporre, di coordinare e non di comandare. Pur avendo sollecitato l’adozione della didattica a distanza nelle scuole con il DPCM dell’8 Marzo 2020, nessuna fonte ministeriale ha mai imposto una modalità unica di intenderla negando esplicitamente la libertà di insegnamento, né autorizzato i dirigenti a diventare fonte normativa delle nuove condizioni di lavoro nella scuola definendo in autonomia gli obblighi connessi alla funzione docente.

Ora è opportuno ribadire che siamo e continueremo ad essere nelle sabbie mobili, stiamo sperimentando metodologie di relazione che non conosciamo e non controlliamo, siamo consapevoli della finalità relazionale-educativa delle scelte diversificate che abbiamo messo in campo, ma anche che non sono accessibili a tutti e sul piano didattico andiamo per tentativi, non abbiamo alcuna certezza di ciò che facciamo, se non che sperimentiamo qualcosa di profondamente diverso dalla didattica in presenza e che in nessun modo dovrebbe essere forzosamente ricondotta e incasellata in quelle forme. Il mondo dell’e-learning esiste, ma non è la scuola. Non stiamo facendo i preparativi per il “salto di qualità”, ma semmai stiamo sperimentando i limiti di queste modalità e acquisendo maggiore consapevolezza della irriducibile complessità e ricchezza della vita scolastica reale, che oggi ci è preclusa.

Ciò che facciamo è costitutivamente provvisorio perché nato da una situazione di emergenza e tale deve rimanere. E’ la condizione storica che ci impone l’incertezza, facciamo lezioni con alunne e alunni che possono vivere quotidianamente la paura per i genitori che lavorano nell’ambito della Sanità o degli altri servizi essenziali in cui sono a contatto con il pubblico, sentiamo storie di tracollo finanziario, di studenti che raccontano l’inquietudine di genitori costretti a chiudere la propria attività e che non sanno come potrà finire. Noi dovremmo ascoltare e condividere, dar loro voce per sentirci noi stessi – che il lavoro e il reddito non lo abbiamo perduto – vicini e a sostegno di chi è in situazione più grave di noi. La dimensione scolastica a distanza non può diventare una bolla, un mondo parallelo in cui si finge di continuare come se nulla fosse accaduto, e meno che mai dovrebbe rappresentare un salto verso la scuola del futuro; semmai dovrebbe appunto farci capire meglio cosa la scuola non può e non deve diventare, consapevoli del fatto che ogni emergenza lascia strascichi e pericoli, rende pensabile e politicamente riproducibile ciò che è stato sperimentato.

Dobbiamo dircelo, è un problema che investe il modo di operare di noi insegnanti anche a prescindere dall’imposizione esterna. L’affannoso tentativo di mantenere in vita la scuola che conoscevamo può portarci improvvidamente a ripeterne e scimmiottarne le procedure e ritualità che nel contesto attuale risultano del tutto inadeguate e improponibili.

L’orario delle lezioni, il carico di compiti, l’utilizzo del registro per firme, lo svolgimento della programmazione, le modalità di osservazione e valutazione non possono essere quelle che adottavamo in classe. Dovrebbe essere il semplice buon senso a darcene contezza, ma spesso esso naufraga di fronte all’ansia da prestazione e forse al bisogno più profondo di dominare una realtà che invece ci sta sfuggendo di mano. Non dobbiamo dimostrare niente, solo pensare e fare ciò che ci sembra abbia un senso.

Quindi procedere con misura è quasi un imperativo etico nella situazione presente, senza eccedere nelle richieste, in particolare nella scuola primaria, senza mettere in difficoltà studenti e famiglie, che giustamente iniziano a denunciare la fonte di stress ulteriore causata dall’accumulo di lezioni e compiti, nella consapevolezza che oggi più che mai non sappiamo quale sia la vita reale delle persone dietro lo schermo.

Riteniamo sia essenziale bloccare le fughe in avanti, mantenere per quanto possibile la lucidità nella gestione di una situazione che rischia sempre di sfuggirci di mano anche per effetto della proliferazione di note ministeriali, che comunque hanno generalmente la caratteristica di invitare, suggerire proporre e non di imporre indicazioni precise. Questo è il compito che si sono invece autonomamente assunt* alcun* dirigenti, inebriat* dalle improvvide lusinghe del video messaggio della ministra Azzolina, in cui sono stati infelicemente investiti del ruolo di capitani.

Gli esempi purtroppo non mancano, l’emergenza è una ghiotta occasione per le velleità dirigiste (ma, lo ribadiamo, a volte anche frutto dell’azione autonoma dei docenti). A questo è importante reagire negando agibilità alle seguenti pratiche illegittime e pericolose:

· convocazioni di organi collegiali a distanza con pubblicazione delle relative delibere;

· utilizzo del registro elettronico per firmare, scrivere voti, note disciplinari, assenze;

· orario delle lezioni a distanza identico al precedente orario di servizio;

· incursioni di controllo durante le lezioni online da parte del dirigente o dei collaboratori;

· richiesta di rendicontazione puntuale delle attività svolte e di nuove programmazioni;

· costruzione di una catena di comando attraverso l’ingiunzione ai coordinatori di svolgere compiti di controllo dei colleghi e di fare rapporto al dirigente;

· imposizione delle modalità e degli strumenti da utilizzare per attuare la didattica a distanza;

· prove di verifica sommative e loro valutazione.

Non c’è nulla, davvero nulla che dia legittimità a queste azioni. Non c’è neanche nulla che le impedisca, se non la nostra consapevolezza, il nostro senso di realtà e la nostra volontà di prendere una posizione. Questa è l’ambiguità di fondo anche delle diverse note ministeriali dettata dal fatto che si pretende di affermare che la scuola continua, che il diritto all’istruzione è garantito quando invece è stato sospeso (su questo punto vedi http://www.cobasbologna.it/scuola-e-didattica-al-tempo-del-coronavirus ).

Riprendiamo alcuni punti più nel dettaglio.

Organi collegiali

Per quanto riguarda il funzionamento degli organi collegiali è escluso che delibere online possano avere valore legale, ciò va ribadito anche in occasione di incontri convocati in tale forma (sempre se si decide di partecipare ovviamente). Ogni momento di scambio e coordinamento tra collegh* è prezioso ma deve rimanere un momento di confronto libero e volontario, questa spontaneità ne costituisce il valore primario, non è la convocazione di un organo collegiale, non può prendere decisioni vincolanti sul piano formale né implicare obblighi di presenza.

Registro elettronico

La sospensione delle attività didattiche implica la sospensione dell’utilizzo del registro elettronico secondo le modalità consuete. Esso diventa soprattutto un mezzo per comunicare con le/gli studenti, ma non è uno strumento per certificare la presenza dell’insegnante, degli studenti, per registrare valutazioni o note disciplinari. Esso può invece essere utile per comunicare con studenti e famiglie e soprattutto per coordinare le attività di lezione online che dovrebbero ragionevolmente evitare un sovraccarico di ore davanti al pc sia per le lezioni che per lo svolgimento di compiti.

Valutazione

L’ultima nota ministeriale sulla didattica a distanza del 17 marzo 2020 che tratta il tema della valutazione è necessariamente vaga per quanto affermi che la valutazione è momento necessario di ogni attività didattica e cerchi di imporla in modo unilaterale e illegittimo. Essa afferma semplicemente che “le forme, le metodologie e gli strumenti per procedere alla valutazione in itinere degli apprendimenti, propedeutica alla valutazione finale, rientrano nella competenza di ciascun insegnante”. Noi qui dovremmo fermarci, cioè alla presa d’atto che non si dice nulla di specifico e non esiste alcuna regolamentazione della valutazione della didattica a distanza.

Quello che dalla stessa nota emerge chiaramente è l’improponibilità di forme di valutazione sommativa e – aggiungiamo noi – ciò implica la necessità di resistere all’imposizione o alla tentazione di mettere voti sul registro. Certo si può cercare una forma per dare un feed back formativo ( consapevoli che proprio il feedback è spesso ciò che rende problematica la comunicazione a distanza) riguardo alle attività svolte, alla partecipazione, ai lavori consegnati, ma appunto dovrebbe mantenersi su un piano fluido magari anche non numerico, con il fine principale di sollecitare e rispondere alle esigenze degli studenti, e di discuterne con loro, non di colmare le ansie di chi non sa come potrà rendicontare il lavoro svolto o su quale base fornire una proposta di voto per gli scrutini (non dimentichiamoci che quando si tratterà di valutare negativamente un alunno perché non ha partecipato o non si è impegnato a distanza, tutto il castello di carta della valutazione degli apprendimenti dovrebbe crollare inesorabilmente e scopriremo che – quest’anno – la valutazione si muoverà su criteri diversi). Questo non è un nostro problema individuale, riguarderà milioni di studenti e, prima o poi, dovrà emergere una indicazione definita al riguardo.

Oltretutto i decreti vigenti pongono dei limiti temporali alla sospensione delle lezioni e non siamo noi a dover andare oltre, anche se sappiamo che verranno estesi. Stiamo vivendo nell’attesa, nella transitorietà, non ha alcun senso che singoli docenti o anche singole scuole inizino ad avanzare soluzioni particolari del problema della valutazione di questo anno scolastico, che ovviamente dovrà investire l’intera scuola italiana. È forse questo il tempo di invocare i poteri dell’autonomia e l’ulteriore frammentazione delle decisioni politiche sulla gestione della scuola? È davvero paradossale che in questa situazione si debbano sentire toni trionfalistici o propagandistici per descrivere le attività messe in atto da singole scuole o singoli docenti.

Monitoraggi e rimodulazione delle programmazioni

Quanto detto vale anche per ciò che attiene alla richiesta di compilare monitoraggi sulle attività svolta o ridefinizioni della programmazione. A noi sembra che le risposte sensate possano solo essere quelle che negano la possibilità stessa di una programmazione in senso proprio, che prendono semplicemente atto della necessità di abbandonare l’idea di poter svolgere i programmi, di scegliere di volta in volta gli argomenti da privilegiare, di sperimentare forme di comunicazione e relazione educativamente più efficaci. Niente più che l’ovvietà, che può tradursi in poche righe scritte o anche nel rifiuto di compilare e scrivere alcunché.

Non facciamoci incastrare sulla questione degli apprendimenti, della valutazione, del registro, della programmazione, come se davvero il diritto all’istruzione non fosse stato sospeso. Lo ribadiamo ancora, spesso la fonte del problema è unicamente la pretesa illegittima di normare le attività di insegnamento e funzionali all’insegnamento come se le lezioni non fossero state sospese e ci trovassimo ancora sul terreno della didattica in presenza.

Chiediamo alla Ministra Azzolina di prorogare i termini delle domande di mobilità

L’ordinanza con cui il Ministero da lei diretto dà avvio alle procedure di mobilità per l’anno scolastico 2020/2021, fissando le scadenze del 21 (per i docenti) e 27 aprile (per gli ATA) come se ci trovassimo in una situzione ordinaria, sarebbe sorprendente comunque, anche se lei, uscita dall’Università, non avesse più frequentao la scuola, neanche di sfuggita.

Ma diventa addirittura sconcertante una volta che si sappia come in realtà lei, presa la laurea, dalla scuola non sia mai uscita se non al momento di diventare, solo due anni fa, parlamentare. Lei è stata insegnante precaria con continuità fino al 2014 e, una volta stabilizzata, ha proseguito nell’attività docente fino al 2018, lasciandola al momento del passaggio nelle aule parlamentari. E non solo: per parecchi anni lei ha fatto coincidere l’insegnamento con la militanza in un’organizzazione sindacale della scuola. Dunque, al momento dell’emanazione dell’ordinnza suddetta, lei aveva tutti gli elementi per valutare l’assolutà incongruità delle date stabilite. E nello specifico doveva sapere che le date fissate per la presentazione delle domande di mobilità sono del tutto fuori dalla drammatica realtà attuale. Perchè se è vero che le domande vanno fatte on-line, è altrettanto vero che la loro complessità, il doverle compilare con estrema precisione, la documentazione da allegare richiedono necessariamente il ricorrere da parte di docenti ed ATA agli uffici scolastici, all’informativa e consulenza “in persona”, in particolare nelle sedi sindacali per chi a tali sedi ha necessità di fare riferimento. Tutto ciò, dunque, necessita di quella piena libertà di circolazione e di “contatti” che non c’è oggi, ma verosimilmente non ci sarà neanche per tutto il mese di aprile, visto che è pressochè certo – e lei ne dovrebbe essere pienamente consapevole – il prolungamento delle restrizioni attualmente previste fino al 3 aprile. Crediamo che, in particolare usando appieno la sua precedente esperienza di docente precaria e poi stabilizzata, nonchè quella di sindacalista della scuola, lei possa ben valutare l’errore commesso dal suo Ministero e ripararlo nel più breve tempo possibile. A tal fine, le chiediamo di posticipare almeno alla fine del mese di maggio le scadenze fissate dall’ordinanza per la presentazione delle domande di mobilità per l’anno scolastico 2020/2021. E questo è, in proposito, il telegramma che abbiamo inviato nella giornata di ieri a lei e agli organi preposti del Ministero dell’Istruzione.

I COBAS, in merito all’ordinanza con cui si dà avvio alle procedure di mobilità per l’anno scolastico 2020/2021, con le scadenze del 21 (per i docenti) e 27 aprile (per gli ATA) , rilevano la mancanza di congruità dei tempi previsti in tale disposizione con la situazione emergenziale del paese e con l’evidente difficoltà che si verrà a creare per il personale scolastico. Infatti pur se la domanda si inoltra in modalità on line è evidente il necessario supporto sia del settore amministrativo delle istituzioni scolastiche sia delle sedi sindacali notoriamente utilizzate dal personale per informazioni e assistenza nella compilazione e che richiede quella “libera” circolazione che ad oggi, e verosimilmente per tutto il mese di aprile, per le note restrizioni, non c’è.

I COBAS chiedono dunque di posticipare non essendo possibile, in una situazione così straordinaria, pensare che tutto possa svolgersi in modalità e tempi identici a situazioni ordinarie – almeno alla fine del mese di maggio le scadenze fissate dall’ordinanza per la presentazione delle domande di mobilità per l’anno scolastico 2020/2021, cosa del resto già successa in passato e che non pregiudicherebbe le operazioni e il regolare avvio del prossimo anno scolastico .


COBAS SCUOLA

SOCIETA’, ECONOMIA E SCUOLA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Sospensione delle lezioni e didattica a distanza: in questo scenario siamo costretti a muoverci da settimane, adottando le modalità che ciascuno/a ritiene più opportune, accomunati, docenti e studenti, dal riconoscimento di un primordiale bisogno di relazione e di contatto. Un modo per reagire allo stato di eccezione che interrompe il fluire delle relazioni, della vita, sottomettendoci al principio esclusivo della sopravvivenza biologica individuale, un modo per affermare   l’importanza delle relazioni sociali in un tempo in cui le persone diventano individui, bloccati nella paura, distanti, diffidenti, passivi, annoiati e soli. La scuola è luogo di incontro: mai come ora capiamo quanto sia importante e imprescindibile la fisicità, la presenza di corpi, sguardi e voci che si intrecciano; abbiamo sperimentato, anche con le nuove tecnologie di comunicazione on-line , la possibilità di vedersi e ascoltarsi, come resiliente tentativo di tenere in vita almeno una traccia di contatto reale. L’obiettivo, nitido quanto difficile, è preservare la funzione di presidio civile che la scuola rappresenta di fronte al vuoto della paura e dell’emergenza.

Questa consapevolezza non può e non deve in alcun modo diventare uno schermo per nascondere la realtà: il diritto all’istruzione è stato sospeso, cosi come molti diritti civili fondamentali garantiti dalla Costituzione, per tutelare un diritto alla salute minacciato dalla pandemia e dall’inadeguatezza del nostro sistema sanitario a fronteggiarla, nonostante l’abnegazione e i ritmi massacranti con cui stanno lavorando gli operatori sanitari, esponendosi a pesanti rischi personali. La ratio dei provvedimenti governativi è quella di rallentare la diffusione del contagio, abbassando e spalmando i picchi, in modo da rendere più sostenibile la pressione sul SSN, anche grazie ai tentativi di potenziare, in particolare, la terapia intensiva. Ma tale situazione è stata determinata dalla pluridecennale politica neoliberista dei tagli alla spesa sanitaria, fatta passare come razionalizzazione, che ha determinato chiusura di ospedali, riduzione dei posti letti, riduzioni dell’organico, aumenti delle liste di attesa. Tra i problemi riscontrati in questi giorni in Lombardia vi sono il ritardo con cui vengono fatti i tamponi anche per chi segnala sintomi preoccupanti (almeno 4 giorni) e i ritardi nell’ ospedalizzazione, quando tutti gli esperti sottolineano che l’efficacia delle terapie è decisamente maggiore nelle prime fasi della malattia. Inoltre, la riconversione degli altri reparti sta determinando un’inevitabile riduzione delle cure per le altre patologie. Anche la regionalizzazione della Sanità mostra la corda, perché di fatto determina uno scarso coordinamento delle strutture sanitarie a livello nazionale nella gestione dell’emergenza. La regionalizzazione è strutturalmente collegata con l’aziendalizzazione e la privatizzazione, perché storicamente l’aumento delle competenze degli enti locali implica una riduzione delle risorse pubbliche e della stessa efficacia dell’intervento. Non a caso il governo si è deciso ad autorizzare la requisizione temporanea delle strutture private idonee. Tutto questo dovrebbe essere un monito politico per bloccare le folli proposte di autonomia regionale differenziata, sia in salsa leghista che del PD.

Gli effetti sull’economia reale sono pesantissimi, ma diventano drammatici per tantissime categorie del lavoro dipendente e autonomo, i “non garantiti” che pagheranno duramente quello che sta accadendo. Il primo settore che ne ha sofferto è stato il turismo, che produce il 14% del PIL; ora stanno crollando decine di migliaia di piccole e medie attività di ristorazione, accoglienza, ospitalità, artigianato, commercio, produzione e diffusione alimentare, con decine di migliaia di lavoratori, precari o in nero, senza reddito; persino piccole e medie aziende, che dovrebbero essere al riparo dall’uragano, tracollano perché il Made in Italy ora fa paura persino nei settori più impensabili. Ma con le restrizioni progressive per la maggior parte delle attività economiche per un tempo che allo stato non è prevedibile e, nonostante i provvedimenti di sostegno alle famiglie e alle imprese, vi sarà un crollo della domanda interna con effetti negativi a catena sulla produzione e sull’occupazione. E’ sempre più evidente che bisogna invertire la rotta: abbiamo bisogno come il pane dell’intervento pubblico in economia per sostenere la domanda, per orientare la produzione verso modelli sostenibili, per ricominciare ad investire sulla ricerca e l’innovazione, per un reddito “di quarantena” nell’immediato, per i lavoratori autonomi e dipendenti, anche precari o in nero, più colpiti, e un reddito universale in prospettiva. E’ un segnale sicuramente positivo la decisione della Commissione UE di proporre al Consiglio, per la prima volta nella storia, l’attivazione della clausola del Trattato che prevede la sospensione del Patto di Stabilità. E’ un’operazione simile al “whatever it takesdi Draghi, a cui seguì il quantitative easing e una politica monetaria fortemente espansiva; ora assistiamo a un’inversione di rotta anche per la politica di bilancio. Ma il quadro dei vincoli di bilancio che ha caratterizzato la vita dell’euro e dell’UE, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact, deve saltare in modo strutturale e permanente.  E’ necessaria un’ingente e stabile spesa pubblica in deficit per affrontare l’emergenza sanitaria e strutturalmente aumentare la domanda, la produzione e l’occupazione. Va finanziata con il Fondo Salva Stati, con gli Eurobond e, soprattutto, rimettendo in discussione il tabù del finanziamento monetario, conferendo alla BCE e alle BCN i poteri che hanno tutte le Banche Centrali del mondo: acquistare titoli di Sato sul mercato primario e anticipare moneta in conto corrente al Tesoro dello Stato.

In questo contesto la scuola oggi sopravvive come presidio di civiltà, come sforzo collettivo inderogabile di affermare il bisogno di sopravvivenza civile, sociale, affettiva, e non solo biologica. Ma guai a pensare che questa possa essere la normalità, l’occasione offerta alla scuola per scoprire alternative migliori; guai a pensare che stiamo garantendo davvero il diritto all’istruzione in altra forma o addirittura che si tratti di un’opportunità per fare un salto di qualità. Ogni sospensione dei diritti costituzionali è sempre una minaccia. L’emergenza è il terreno ideale per le sperimentazioni sociali, l’occasione per imporre cambiamenti difficilmente realizzabili in tempi normali. E’ la tecnica della shock economy teorizzata da Naomi Klein: approfittare della crisi per imporre in modo strutturale nuovi modelli economico-sociali. La sospensione della socialità nel momento dell’emergenza porta con sé il rischio che diventi strutturale il ritorno all’individualismo anche con il ritorno alla normalità, tanto più se pensiamo che già in tempi normali l’io stava prevalendo sul noi. La conseguenza sarebbe una drastica riduzione del peso dell’azione e dell’organizzazione collettiva, dello stesso conflitto sociale, con un aumento esponenziale della disuguaglianza sostanziale a scapito dei più deboli. Un rischio del genere c’è anche nella scuola: sospensione della collegialità per rafforzare ulteriormente il potere gerarchico dei dirigenti; didattica a distanza che diventa strutturale e sostitutiva della didattica in presenza…. Per questo sentiamo la necessità di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti della situazione attuale per capire cosa sta accadendo e dove stiamo andando, quali sviluppi della gestione dell’emergenza siano da contrastare e scongiurare, quali, invece, siano occasioni per rafforzare la scuola pubblica e il diritto all’istruzione.

Emerge da quanto detto in premessa, ma lo vogliamo ribadire con grande chiarezza e semplicità. La didattica a distanza è inevitabile in questa fase, ma non illudiamoci e non illudiamo: non è scuola, non garantisce il diritto all’istruzione! La scuola è, o dovrebbe essere, una comunità educante, che punta allo sviluppo delle capacità di analisi e di sintesi, allo sviluppo dello spirito critico della/del cittadina/o e, per esserlo, ha bisogno di relazioni umane, emotive e cognitive, che non possono essere assicurate dall’insegnamento a distanza.Siamo d’accordo nel farci carico della situazione per mantenere i contatti con studenti e studentesse, per sostenere e provare a dare un contributo, ma ribadiamo con forza che ciò è semplicemente reso indispensabile ed ineludibile dall’eccezionalità della situazione e rigettiamo con forza qualsiasi retorica modernista e qualsiasi ubriacatura pseudo tecnologica per il futuro.

In realtà basterebbe, ma pare non lo faccia nessuno, chiedere e discutere con i diretti interessati; credete che studenti e studentesse preferiscano rimanere in casa davanti ad un pc o, più spesso, ad uno smartphone per ore ed ore piuttosto che frequentare una scuola? Di più, credete che questo sarebbe un bene per loro? Avete chiesto alle famiglie cosa ne pensano? Avete parlato con i/le docenti per avere feedback reali? Sono evidentemente domande retoriche: basta il buon senso per rispondere. Assodato che questa è solo una situazione di emergenza che non dovrà, da questo punto di vista, lasciare alcuna eredità, vogliamo mettere in evidenza come anche in questo caso le emergenze diventino subito occasioni per effettuare sperimentazioni, per far fare salti in avanti a logiche securitarie e di controllo, per introdurre “novità” al di fuori delle regole e degli schemi istituzionali e normativi, per verticalizzare le relazioni di potere e sperimentare nuove forme di dirigismo autoritario. Rifiutiamo l’idea che a causa della pandemia le scuole diventino caserme o navi da guerra, non abbiamo bisogno né di capitani né di comandanti; non siamo disposti a dare spazio a retoriche patriottarde che mascherano intenti autoritari, così come non vogliamo dare spazio alle smanie di protagonismo e deliri di controllo messi in campo da svariati dirigenti e, purtroppo, anche alcuni/e nostri/e colleghi/e.

C’è anche un altro aspetto di cui tenere conto in questa ubriacatura pseudo-tecnologica. Stiamo aprendo le porte ai giganti del big-tech,con la scusa del poco tempo, grazie anche ad accordi che da tempo stavano venendo avanti, le grandi corporazioni del cosiddetto big-tech [google, microsoft, apple ecc…] stanno entrando in pompa magna nel sistema scolastico. Consideriamo grave che, senza colpo ferire, senza un minimo di discussione, una fetta del sistema e dello stesso diritto all’istruzione (una grossa fetta se diamo retta ai paladini della dad) venga acriticamente messa in mano di questi colossi multinazionali privati, famosi soprattutto per le loro capacità di estrarre profitto dalle nuove tecnologie e di evadere o eludere il fisco. Anche qui vediamo in azione i meccanismi della shock economy: sull’onda dell’emergenza si introducono senza confronto e senza discussione elementi di mercato e di omologazione, mentre al contempo si restringono gli spazi di democrazia. Dove sono finite tutte le riflessioni e i tentativi di introduzione del software libero? Dove finisce l’opposizione e la protezione dalle ingerenze di questi colossi multinazionali? Perché continuare ad aprire le porte della scuola alla società dei big-data, in mano alle corporazioni private, con tutti i pericoli del controllo continuo?

Infine, vi è una scuola in cui tutte le tendenze analizzate si mostrano in modo esasperato e paradossalmente alla rovescia ed è la scuola in carcere. I detenuti, costretti ad una doppia reclusione a causa del COVID-19, non hanno più alcuna possibilità di avere contatti con i propri insegnanti, con cui hanno, per nove mesi l’anno, il rapporto quotidiano più costante e diretto. I docenti sono stati fatti uscire dalle aule “ristrette” il 4 marzo e da allora non hanno avuto più alcuna possibilità di avere contatti con i propri studenti. La Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 12 marzo ha previsto l’uso di Skype anche per riprendere i rapporti con gli alunni, ma ciò si sta rivelando impossibile (manca il personale, mancano i computer, mancano gli spazi) e, al massimo, i docenti possono consegnare materiale cartaceo alle aree educative interne, Come è facile capire, in celle affollate, senza illuminazione adeguata, in una condizione di ansia e con problematiche serissime da affrontare (tra cui quella sanitaria) difficilmente tale materiale potrà essere utilizzato, nonostante anche in carcere ci si diplomi e gli studenti maturandi non si sa, ancor più che nel “mondo di fuori”, quando e se potranno svolgere gli Esami di maturità. Dunque, proprio in carcere, dove il controllo dei detenuti è totale, salvo i momenti in cui tragicamente la “rivolta” si diffonde (e ricordiamo qui le 13 vittime dell’ultima protesta), l’utilizzo della didattica a distanza è, invece, praticamente inesistente, perché inutile nell’istituzione totale per eccellenza, dove il controllo è la norma.

Ci sono, comunque, aspetti concreti che, anche nell’ambito della situazione emergenziale, devono essere affrontati.

1) In base alle leggi e alle norme contrattuali vigenti, con la sospensione delle attività didattiche i docenti non hanno alcun obbligo di svolgere le 18, le 24 o 25 ore di lezione. Svolgere attività didattica a distanza risponde ad una inevitabile necessità, ma non ad un obbligo giuridico. Al tempo stesso le modalità di svolgimento non possono essere imposte: il docente è libero di scegliere le diverse modalità e tecniche. Dal D. Lgs 165/2001 fino alla legge 107/2015 tutte le leggi o atti aventi forza di legge prevedono che i poteri del dirigente scolastico sono esercitati nel rispetto delle competenze degli organi collegiali. Nel DL n. 6/2020 non si rinvengono deroghe a tali previsioni legislative. L’art. 7 del TU assegna al Collegio dei docenti “potere deliberante in materia di funzionamento didattico del circolo o dell’istituto(..). Esso esercita tale potere nel rispetto della libertà di insegnamento garantita a ciascun docente”. Il comma prosegue elencando una serie di competenze specifiche del Collegio che spaziano in moltissimi campi che attengono tutti alla didattica. Per cui, il Collegio dei docenti ha quella che nel linguaggio giuridico si chiama “competenza generale” su tutto ciò che attiene alla didattica. E’ di tutta evidenza che l’art. 1 del DPCM del 4 marzo può essere interpretato in modo legittimo solo nel senso che il DS ha l’obbligo di attivare modalità di didattica a distanza, ma ad esso non corrisponde alcun obbligo da parte dei docenti. Insomma, è legittimo e opportuno che il DS agisca come i vecchi presidi, cioè promuovendo e coordinando le attività didattiche a distanza, ma senza alcuna forma di imposizione. E il coordinamento significa anche evitare di imporre agli studenti di stare per tempi lunghissimi al computer, riducendo il numero delle video lezioni, nonché evitare di sovraccaricarli di compiti da svolgere.

2)  Le attività svolte a distanza vanno tracciate nel registro on line, ma senza assolutamente firmare il registro di classe: sarebbe un falso in atto pubblico, che attesta ciò che non corrisponde al vero, cioè che si sono svolte le lezioni in presenza; se non è possibile tracciare le attività senza firmare, va specificato che si tratta di didattica a distanza.

3) Le valutazioni di carattere sommativo sono assolutamente illegittime e anche inopportune. Checchè ne dicano i funzionari del Miur, tutta la normativa scolastica prevede l’obbligo della vigilanza durante le prove, sia scritte che orali, ed è di tutta evidenza che essa non viene garantita con prove on line. Il che non significa che non vi siano feedback da parte degli studenti: lo sono le domande, i rilievi critici, lo stesso svolgimento dei lavori assegnati, magari svolti in modo collettivo. Tutti elementi che concorrono a determinare la c.d. valutazione formativa, cioè valutazione delle prove che serva per la crescita cognitiva degli studenti, una valutazione dunque che non si trasforma in voto. Infine, ma non ultimo per importanza, valutazioni sommative a distanza di fatto porterebbero inevitabilmente, non al 6 politico tanto temuto dalla Ministra, ma al 6 di mercato, purtroppo già tendenzialmente imperante nella scuola dell’autonomia, in cui le scuole in competizione tra di loro per accaparrarsi clienti- iscritti (che significano più risorse economiche e di personale) scambiano iscrizioni con promozioni. Infatti, valutazioni negative a distanza, se determinanti bocciature in sede di scrutinio, porterebbero inevitabilmente ad una marea di ricorsi con alta probabilità di esiti positivi. Le valutazioni sommative è bene riservarle a quando torneremo veramente a fare scuola, sperando di avere almeno un mese di tempo per riprendere le file del discorso e somministrare delle valutazioni finali, che comunque non potranno non tenere conto dell’eccezionalità della situazione.

 Per tutte queste ragioni chiediamo anche l’immediato ritiro della Nota MIUR n. 388/2020 sulla didattica a distanza, che tante inopportune complicazioni sta creando al lavoro quotidiano di docenti e studenti/sse.

4) Le attività legate ad Invalsi e PCTO (ex alternanza scuola lavoro) devono essere senz’altro sospese. Le prove Invalsi vanno annullate per tutte le classi dei vari ordini di scuola per le quali sono previste. Le attività di PCTO vanno sospese per tutti le classi del triennio delle scuole superiori, sia perché in tempi di emergenza non è pensabile continuare a sottrarre ore alla didattica ordinaria in presenza già pesantemente falcidiata, sia per evidenti ragioni di tutela della salute. Entrambe non devono costituire requisiti per l’ammissione agli esami, anche per gli alunni delle attuali quarte, per evitare che siano costretti a svolgere gli stage aziendali nell’ultimo anno di corso. Per le classi terze e quarte di quest’anno le attività vanno ridotte di 1/3 per evitare che siano costrette a svolgere in due anni ciò che era previsto per tre. Vi sono state delle dichiarazioni in tal senso, ma non vi è ancora nulla di ufficiale. Che senso ha volersi incaponire a portare avanti attività di questo tipo in un momento come questo? Stupisce e preoccupa che, nonostante l’emergenza giustifichi la sospensione delle lezioni, ancora non si sia fatta una cosa così semplice come cancellare attività che non hanno alcuna valenza didattica, che hanno l’unico pregio di essere perfettamente congeniali alla logica della scuola-azienda; evidentemente l’emergenza vale solo in determinati campi, mentre altri devono essere difesi e mantenuti ad ogni costo.

5) Gli esami di Stato vanno svolti con le Commissioni formate tutte da membri interni, che conoscono il lavoro effettivo svolto dalla classe. Per lo stesso motivo, anche le prove scritte vanno formulate dalla Commissione stessa, sulla base di uno schema base fornito dal Miur, per garantire un minimo di omogeneità. Per lo stesso fine potrebbe essere auspicabile che il Presidente sia esterno.

6) Nonostante quel che dice la Ministra, inevitabilmente quest’anno scolastico avrà effetti anche sul prossimo, per il semplice motivo che aver perso 2 o, in alcune regioni, 3 mesi di scuola vera imporrà una riformulazione della programmazione didattica anche per l’anno prossimo. Per cui, è ancora più indispensabile avere tutti docenti in cattedra dal primo giorno di scuola. Ma il protrarsi dell’emergenza determinerà inevitabilmente un allungamento dei tempi sia del concorso straordinario che di quello ordinario. Per cui, è necessario anche nella scuola applicare i criteri emergenziali già applicati per i medici: valore abilitante della laurea; concorso straordinario per soli titoli per tutti i precari che hanno maturato 36 mesi di servizio, in applicazione anche delle sentenze della Corte di Giustizia Europea che hanno condannato lo Stato italiano per abuso di ricorso al contratto a tempo determinato. Nell’immediato chiediamo la proroga dei contratti per tutto il personale a tempo determinato, docente e Ata,  che risultava in servizio al momento della disposizione di sospensione delle attività didattiche o di chiusura delle scuole.

7) Con l’entrata in vigore immediata del DL 17.3.2020 e, ancor di più, con la chiusura di tutte le attività produttive   che non siano strettamente necessarie per garantire beni e servizi essenziali, annunciata da Conte la sera del 20 marzo, nella stragrande maggioranza dei casi le scuole devono essere chiuse anche per il personale Ata.Infatti, l’art. 87 c.1 prevede: “il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni (..), che, conseguentemente: a) limitano la presenza del personale negli uffici per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro, anche in ragione della gestione dell’emergenza”. Nella scuola i casi di attività indifferibili e strettamente necessarie da svolgere in presenza sono veramente pochi, come la gestione delle aziende agrarie o quella dei rifiuti tossici. Continuare a tenere aperte le scuole significa esporre a inutili rischi il personale Ata e gli stessi dirigenti, che in caso di contagio potrebbero incorrere in responsabilità anche di carattere penale.

Esecutivo nazionale dei COBAS – Comitati di base della Scuola

23 marzo 2020

Scuola e didattica al tempo del Corona virus

Sospensione delle lezioni e didattica a distanza. In questo scenario ci muoviamo da settimane, ciascun* adottando le modalità che ritiene più opportune, accomunat* dal riconoscimento di un primordiale bisogno di relazione e di contatto che accomuna docenti e studenti. Un modo per reagire allo stato di eccezione che interrompe il fluire delle relazioni, della vita, sottomettendoci al principio esclusivo della sopravvivenza biologica individuale, un modo per affermare l’importanza delle relazioni sociali in un tempo in cui le persone diventano individui, bloccati nella paura, distanti, diffidenti, passivi, annoiati e soli.

La scuola è luogo di incontro, mai come ora capiamo quanto sia importante e imprescindibile la fisicità, la presenza di corpi, sguardi e voci che si intrecciano, abbiamo sperimentato le nuove modalità della cosiddetta didattica a distanza, anche la possibilità di vedersi e ascoltarsi, come resiliente tentativo di tenere in vita almeno una traccia di contatto reale.

L’obiettivo, nitido quanto difficile, è preservare la funzione di presidio civile che la scuola rappresenta di fronte al vuoto della paura e dell’emergenza.

Questa consapevolezza non può e non deve in alcun modo diventare uno schermo per nascondere la realtà: il diritto all’istruzione è stato sospeso, così come molti diritti civili fondamentali garantiti dalla Costituzione, per tutelare un diritto alla salute minacciato dall’inadeguatezza del nostro sistema sanitario a fronteggiare l’epidemia, nonostante l’abnegazione e i ritmi massacranti con cui stanno lavorando gli operatori sanitari, esponendosi a pesanti rischi personali. La scuola oggi sopravvive come presidio di civiltà, come sforzo collettivo inderogabile di affermare il bisogno di sopravvivenza civile, sociale, affettiva, e non solo biologica.

Guai a pensare che questa possa essere la normalità, l’occasione offerta alla scuola per scoprire alternative migliori, guai a pensare che stiamo garantendo davvero il diritto all’istruzione in altra forma o addirittura come opportunità per fare un salto di qualità.

Ogni sospensione dei diritti civili è sempre una minaccia. L’emergenza è il terreno ideale per le sperimentazioni sociali, l’occasione per imporre cambiamenti difficilmente realizzabili in tempi normali.   Per questo sentiamo la necessità di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti della situazione attuale per capire cosa stia accadendo e dove stiamo andando, quali sviluppi della gestione dell’emergenza siano da contrastare e scongiurare, quali invece siano occasioni per rafforzare la scuola pubblica e il diritto all’istruzione.

Il diritto all’istruzione è sospeso. Proprio per questo stiamo praticando la “didattica a distanza”.

Giova allora rammentare sempre che uno degli aspetti più importanti in questa delicata fase d’emergenza è mantenere la socializzazione. Potrebbe sembrare un paradosso, ma le richieste che le famiglie rivolgono alle scuole vanno oltre ai compiti e alle lezioni a distanza, cercano infatti un rapporto più intenso e ravvicinato, seppur nella virtualità dettata dal momento. Chiedono di poter ascoltare le vostre voci e le vostre rassicurazioni, di poter incrociare anche gli sguardi rassicuranti di ognuno di voi, per poter confidare paure e preoccupazioni senza vergognarsi di chiedere aiuto.

Parole del capo dipartimento del MIUR Giovanna Boda redattrice della nota del 13 Marzo 2020: viene delimitato chiaramente l’orizzonte entro cui si può trovare il senso delle diverse pratiche ascrivibili alla cosiddetta “didattica a distanza” attivata nelle scuole a seguito dei diversi Decreti ministeriali sull’emergenza coronavirus.

Parole pienamente condivisibili, che ben descrivono le mille modalità messe in atto dai docenti in queste settimane, innanzitutto per ritrovare un contatto con bambine e bambini, ragazze e ragazzi, provando a riempire quel vuoto improvvisamente creatosi con la sospensione delle attività didattiche. È in questa attivazione autonoma, realizzatasi anche grazie ad una condivisione di suggerimenti e competenze tecniche da parte di colleghe e di colleghi più preparat*, che si trova l’autentico nucleo vitale dell’esperienza che stiamo vivendo. Una risposta compatta e generosa da parte del mondo della scuola che ha cercato di superare le barriere di quarantene e zone rosse.

Pratiche plurali, originali e nuove oppure anche ispirate alla quotidianità della normalità: video lezioni, compiti e letture assegnate sul registro elettronico di classe, testi da scrivere o esercizi da svolgere online… Insomma una ricchezza che rispecchia la varietà e la pluralità degli stili di insegnamento dei docenti che sono state trasportate, per quanto possibile, in dimensione virtuale.

L’ultima nota, la 388 del 17 Marzo, del capo di dipartimento Marco Bruschi, ribadendo quanto già espresso in altre note precedenti, nonché nel videomessaggio della ministra Azzolina, aggiunge elementi che ci lasciano perplessi, tanto per il modo perentorio quanto per il carattere ingiustificato.

La declinazione in modalità telematica degli aspetti che caratterizzano il profilo professionale docente, fa sì che si possa continuare a dare corpo e vita al principio costituzionale del diritto all’istruzione.

Qui c’è proprio qualcosa che non va. Sarebbe dunque garantito oggi il diritto allo studio? Decisamente no: come altri diritti costituzionali – primo fra tutti la libera circolazione – in nome della necessità di salvaguardare il diritto alla salute, anche il diritto allo studio, inteso come diritto universale, oggi è stato di fatto sospeso.

Entriamo più nel dettaglio.

Tornando alla nota 388 del 17 marzo, in prima istanza bisognerebbe chiedersi se il diritto all’istruzione, declinato in quella maniera, sia veramente garantito a tutte e tutti. Nella situazione attuale è evidente che ciò non avviene perché presuppone la disponibilità di strumenti e connessione che non tutti possiedono, al contrario di quanto avviene per la didattica in presenza, che è invece aperta a tutti. Indistintamente.

Pieno appoggio a tutti i tentativi in atto di colmare il digital divide per cause economiche e agli investimenti fatti in quest’ottica: esiste un diritto di cittadinanza digitale che è imprescindibile e va perseguito e per questo basterebbe verificare l’efficacia reale dei provvedimenti adottati. Proprio questi però sono la prova evidente che il problema al momento esiste (e presumibilmente continuerà ad esistere fino al termine dell’emergenza): per questo si cerca di monitorarlo e contenerlo. Di certo ad oggi possiamo dire – anche attraverso il riscontro quotidiano con studenti e studentesse – che non c’è effettivamente un diritto all’istruzione per tutt* e che ciò è dovuto a motivi economici.

Questo digital divide  può avere anche origini diverse, inerenti alla sfera delle autonomie. Gli strumenti tecnologici non sempre hanno valenze compensative, anzi: possono anche risultare discriminatori nei riguardi di alunn* con specifiche disabilità, che necessitano di un ausilio anche solo per fare un accesso. Tale problema si presenta anche per i bambini e le bambine della scuola primaria, che hanno bisogno della presenza dell’adulto per accedere ad attività di lezione a distanza o anche solo per connettersi. Non tutti i genitori riescono ad assicurare direttamente o indirettamente questa presenza, magari perché lavorano o semplicemente perché non sono in grado.

Sullo sfondo si muovono i problemi di sempre: già nella scuola “normale” incontriamo un problema di dispersione scolastica, dovuta a cause sociali o a problematiche specifiche di integrazione, oggi lo vediamo crescere ancora di più. Sono le alunne e gli alunni a “rischio” che in questi giorni stiamo perdendo, che non hanno la motivazione autonoma né l’aiuto familiare che consentirebbe loro di partecipare alle attività a distanza. Non si tratta di una problematica necessariamente economica, spesso non sono dispositivi e connessione che mancano, semplicemente stanno fuori (qualcuno chiamerebbe oggi i servizi o i carabinieri per segnalare l’evasione dell’obbligo scolastico? E quando anche fossero coattivamente connessi, riusciremmo a coinvolgerli a distanza? A fare ciò che spesso facciamo fatica a fare in presenza?).

Dobbiamo poi ricordare anche la situazione di tutt* gli/le student* che non riescono a seguire le lezioni online perché devono prendersi cura dei fratelli piccoli o che condividono una stessa stanza con fratelli e sorelle e devono fare i turni per utilizzare l’unico pc disponibile… ( perché le case in cui tutti siamo rinchiusi non sono tutte uguali, non tutt* possono avere “una stanza tutta per sé”, lo sappiamo proprio perché lavoriamo a scuola, immersi nel mondo reale, e non ce lo possiamo dimenticare ora solo perché siamo “a distanza”).

E’ dunque chiaro che il problema dell’accesso alla didattica a distanza non può neppure essere ridotto alla dotazione di pc, tablet e connessione. Il vulnus del diritto all’istruzione rimarrebbe comunque aperto.

All’esclusione di chi per ragioni diverse non può avere accesso alla didattica a distanza bisogna ancora aggiungere lo sgretolarsi delle strategie didattiche di inclusione che esistevano nella scuola in presenza. Riuscire a garantire l’approccio personalizzato durante le lezioni on line è davvero difficile. Gli studenti e le studentesse stranier*, così come tutt* coloro a cui durante le lezioni si cercava di garantire attenzione, calibrando le richieste e le spiegazioni sulle effettive potenzialità e mantenendo uno sguardo volto al coinvolgimento e all’integrazione nel gruppo-classe, risultano oggi inevitabilmente più emarginat* per le caratteristiche stesse del lavoro on line, molto più adatto alla standardizzazione che alla diversificazione dell’approccio didattico.

La questione è dunque complessa e non ci sembra onesto né opportuno procedere a semplificazioni di facciata.

Dovrebbe essere evidente che in questo quadro parlare di continuità della garanzia del diritto all’istruzione diventa davvero mistificatorio. A meno che non venga specificato contraddittoriamente che tale diritto è garantito solo per una parte degli studenti, i salvati, rinunciando alla sua universalità. Riteniamo più serio assumere fino in fondo la contraddizione che si è aperta: la tecnologia è oggi uno strumento prezioso per affrontare la situazione attuale ma al tempo stesso, paradossalmente, esso determina nuovi ostacoli di ordine economico e sociale, proprio ciò che la Repubblica avrebbe il compito di rimuovere.

Stiamo praticando la didattica a distanza come misura eccezionale perché il diritto all’istruzione è stato sospeso. Nell’emergenza vogliamo cogliere le poche opportunità che ci sono offerte, ma al tempo stesso riconoscerne i limiti, dobbiamo avere la consapevolezza che la scuola della didattica a distanza non è veramente aperta a tutti. Non è scuola.

Detto altrimenti: si fa quello che si può, ma niente trionfalismi. La situazione nella scuola rimane grave, così come nella società, e vogliamo lasciarcela alle spalle il prima possibile.

COBAS SCUOLA BOLOGNA