La tragica morte della professoressa Cloe Bianco rappresenta il drammatico punto di arrivo di una triste vicenda che ha inizio nel 2015, quando la docente decise di entrare in classe con gli abiti che corrispondevano alla sua identità di genere femminile e di farsi chiamare col nuovo nome che aveva scelto per sé e che chiedeva agli altri di riconoscere e rispettare. Purtroppo questo suo atto di autodeterminazione e di libertà ha scatenato quel dispositivo sociale sanzionatorio e repressivo conosciuto con il termine “transfobia”. Cloe Bianco aveva scelto di fare coming out, di essere sé stessa sul suo luogo di lavoro, la scuola, e di esprimere, come tutte/i noi facciamo più o meno consapevolmente, la propria identità di genere, attraverso gli abiti, il corpo e tutte quelle manifestazioni di sé che sentiva più adeguate al suo essere donna. Ciò non è stato considerato accettabile dalla scuola e dalla società: se nasci maschio, devi sentirti maschio e comportarti come si dovrebbe comportare un maschio; devi restare inchiodata/o al genere attribuito alla nascita. Non sono previste deroghe. La transfobia funziona così: rispetto ad un atto di autodeterminazione di genere, scatta la sanzione sociale, lo stigma, l’umiliazione e il sarcasmo. E per la vicenda di Cloe Bianco, docente di fisica, si era mobilitata pure la politica. L’assessora all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, nota tra l’altro anche per le sue performance canore con la canzone fascista Faccetta nera eseguita nel corso di una trasmissione radiofonica, non solo rese pubblica una lettera profondamente offensiva nei confronti dell’insegnante ricevuta da un genitore ma nei giorni seguenti si impegnò a denigrare la dignità di Cloe Bianco, parlando di degenerazione e perdita di credibilità della docente, invocando infine provvedimenti disciplinari. L’insegnante si trovò così a percorrere una strada segnata dall’emarginazione e dalla stigmatizzazione sociale, allontanata dal suo contesto lavorativo perché non ritenuta in grado di insegnare, isolata da un mondo che non lascia scampo a chi afferma il diritto di esprimere il genere a cui sente di appartenere e che non corrisponde a quello attribuito alla nascita. Una “gogna nazionale”, come lei stessa l’aveva definita. Ed anche ora, dopo il suo tragico suicidio, c’è chi si riferisce a lei al maschile, definendola, come fa Donazzan, un uomo travestito da donna. È un ultimo oltraggio post mortem: come accaduto già in passato in altri casi, nemmeno davanti ad un suicidio viene rispettata la dignità delle persone transgender.
Ora il Ministero dell’Istruzione intende aprire un’inchiesta per capire cosa ha determinato il suo allontanamento dalla scuola e la sua emarginazione sociale. Come Cobas Scuola chiederemo di essere informati sui risultati di questa inchiesta e verificheremo se, aldilà della dichiarazione di intenti, il Ministero opererà affinché non accadano più vicende come quella subita da Cloe Bianco. Come ha scritto di recente il Consiglio Nazionale di Magistratura Democratica, alla luce dell’ordinanza 185/2017 della Corte Costituzionale, “L’amministrazione scolastica, i genitori, gli allievi non avevano quindi diritto di pretendere un coming out “corretto” o “responsabile”, avevano invece l’obbligo giuridico di rispettare l’identità della prof. Bianco”.
I COBAS Scuola, anche nel rispetto e nel ricordo di Cloe Bianco, continueranno a lottare perché la scuola sia un luogo di lavoro dove le differenze vengono rispettate e valorizzate e per contrastare ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale, l’identità e l’espressione di genere di chi lavora nella scuola.
Il 17 maggio ricorre la Giornata internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, una giornata che dovrebbe essere di lotta e di impegno per contrastare i pregiudizi, le discriminazioni, le violenze di cui sono ancora vittime le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer e intersex, perché non si conformano alle norme sociali di genere, rigidamente binarie e imposte da una cultura in cui risultano ancora predominanti modelli patriarcali, machisti ed eteronormativi di organizzazione sociale. Il mondo della scuola, in cui studiano e lavorano studenti e personale LGBTQI+, rappresenta ancora un luogo dove è rischioso essere se stess*; nella maggioranza dei casi viene scelta la strada dell’invisibilità totale o selettiva, per la paura di subire lo stigma sociale che ancora colpisce le persone che appartengono alle minoranze sessuali e di genere.
La ricerca pubblicata nel 2020 dall’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali ci dice che nei 28 Paesi UE solo il 9% di studenti tra i 15 e i 17 anni rende pienamente visibile la propria identità LGBTI, mentre il 61% la rende visibile in maniera selettiva e il 30% la nasconde del tutto. La scelta di occultare una parte importante di sé non è per nulla libera. La scuola è purtroppo ancora un luogo ostile per molt* studenti LGBTQI+: l’insulto, le prese in giro, le discriminazioni, l’esclusione, il bullismo sono pratiche frequenti che si imparano presto a vedere, a tollerare o minimizzare, a mettere in atto o a subire. Ad esempio, l’UNESCO, in un articolo pubblicato nel 2021, “Don’t look away: No place for exclusion of LGBTI students”, riporta un dato molto preoccupante emerso da una ricerca svolta nei paesi europei; il 54% delle/degli studenti intervistati ha riportato di essere stato vittima di bullismo a scuola mentre l’83% ha dichiarato di essere stato testimone di insulti omolesbobitransfobici.
Di fronte a questo quadro grave e preoccupante, peggiorato in Italia dopo la vergognosa bocciatura del DDL Zan che proprio nella scuola riconosceva un fondamentale ambito di intervento, il Ministero dell’istruzione oltre a emanare una circolare più o meno riciclata di anno in anno, che in molti casi resta lettera morta nei computer delle scuole, non riesce a far altro. Una circolare in cui oltretutto non vengono nemmeno nominate/i le e gli studenti gay, lesbiche, bisessuali e transgender, viene omessa l’identità di genere non conforme come bersaglio di pregiudizio e, in nome dell’autonomia, viene affidato a singoli docenti e scuole il compito di organizzare iniziative per il 17 maggio, come se non sapessimo quanti ostacoli incontrano, dentro e fuori le scuole, le e i docenti che intendono affrontare questi temi. Nel 2022 il Ministero non riesce ancora ad emanare linee guida nazionali, chiare e specifiche, per contrastare l’omolesbobitransfobia a scuola, non promuove la diffusione di temi LGBTQI+ all’interno del curriculum scolastico, non riconosce la condizione di vulnerabilità di studenti LGBTQI+ nel contesto scolastico, vulnerabilità che mette seriamente a rischio il diritto all’istruzione e il diritto di esprimere liberamente se stess*.
I COBAS SCUOLA, anche attraverso lo strumento culturale e formativo del CESP, da anni sono impegnati su questo fronte, attraverso corsi di aggiornamento, convegni, prese di posizione (come il recente sostegno dato alla diffusione nelle scuole della carriera alias), e pubblicazioni: ultima in ordine di tempo la Guida Classe Arcobaleno che offre al personale della scuola una molteplicità di strumenti educativi e didattici per creare a scuola un ambiente che valorizzi le differenze e promuova la visibilità dei temi e delle persone LGBTQI+ (Guida). Perché la Giornata del 17 maggio si costruisce giorno per giorno, con atti concreti e con l’impegno, non con la vuota retorica di circolari ministeriali che rappresentano una foglia di fico per tentare di nascondere l’immobilismo che caratterizza il Ministero su questi temi.
Dopo tanti decenni dal varo e dall’applicazione delle leggi fondamentali che in Italia, caso pressoché unico al mondo, hanno stabilito per ogni alunna e alunno con disabilità il diritto a frequentare le scuole comuni, per un’inveterata abitudine pregiudiziale ancora stenta a diventare pratica diffusa in tante nostre scuole un principio fondamentale che dovrebbe essere ormai assimilato: l’insegnante di sostegno ha pari dignità, pari professionalità, pari importanza nell’economia del lavoro didattico, perché pari dignità e pari diritti hanno le sue allieve e i suoi allievi con disabilità. In tanti (troppi) casi l’insegnante di sostegno è invece sacrificabile, spostabile a piacimento nella scacchiera dell’orario scolastico, qualsiasi sia la sua programmazione giornaliera, qualsiasi siano le esigenze delle allieve e degli allievi a lui affidati. Da qui l’idea di un vademecum contro il dilagante utilizzo dell’insegnante di sostegno come “tappabuchi”, come supplente di insegnanti curriculari assenti. L’idea di fornire gli strumenti per contrapporsi a questa pratica illegittima e lesiva dei diritti degli studenti con disabilità nasce dunque dalla dilagante tendenza a un uso sempre più creativo di questa figura professionale, di fatto considerata una specie di jolly da impiegare per coprire l’atavica penuria di risorse e personale nella scuola italiana.
L’utilizzo dell’insegnante di sostegno come tappabuchi nella stragrande maggioranza delle evenienze che purtroppo si verificano in maniera massiccia nelle nostre scuole è sbagliato sotto il profilo didattico e pedagogico ed è illegittimo sotto quello giuridico. Il vademecum, nato dopo una lunga riflessione all’interno dell’esecutivo provinciale Cobas scuola di Pisa, affronta ambedue le dimensioni – didattico-pedagogica e giuridica – con l’obiettivo di mettere a nudo le motivazioni e di accrescere la consapevolezza di chi si trova coinvolto in tale pratica illegittima e lesiva del diritto allo studio delle allieve e degli allievi con disabilità. Rappresenta uno strumento unico e utile per porre un argine a questa inaccettabile modalità di gestione del personale con la scusa di un’ “emergenza” che in realtà dura tutto l’anno. In un formato agile e chiaro il vademecum passa in rassegna i casi possibili in cui in cui all’insegnante di sostegno viene richiesto di sostituire illegittimamente i colleghi curriculari. Uno spazio cospicuo è dedicato inoltre alle iniziative di resistenza: in appendice sono forniti i modelli per richiedere un ordine di servizio – tutela dalle grandi responsabilità civili e penali in gioco e possibile deterrente per i dirigenti scolastici – e per avvertire e coinvolgere le famiglie nella difesa dei diritti negati.
Sarà compito di chi è testimone e partecipe in prima persona, a cominciare proprio dall’insegnante di sostegno, informare, mobilitarsi e agire, in sinergia anche con le famiglie degli allievi e delle allieve con disabilità. Diventa necessario infatti coinvolgere, qualora non riscontri la sensibilità e la dovuta attivazione della scuola, le associazioni in difesa dei diritti delle persone disabili e il sindacato Cobas attivo sul territorio. Il diritto allo studio di ogni studente, e nello stesso tempo il lavoro e la professionalità dell’insegnante di sostegno, devono ricevere l’attenzione e il rispetto di cui godono tutti gli altri membri della comunità scolastica. Quando anche la scuola italiana avrà assimilato questo semplice assunto non ci sarà più bisogno di vademecum come questo, che trovate con il link:
Annullata la sanzione disciplinare per aver rimosso dalla classe il simbolo religioso
La lunga battaglia civile del prof. Franco Coppoli sulla laicità degli ambienti formativi, patrocinata dall’UAAR, dai COBAS Scuola e dagli avvocati Fabio Corvaja e Simonetta Crisci è arrivata ad una importante sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione che hanno annullato la sanzione disciplinare e la sentenza della Corte di Appello di Perugia 165/14 con rinvio ad altra corte, per illegittimità dell’ordine di servizio del dirigente scolastico. La Corte ha stabilito l’ l’importante principio che l’ostensione obbligatoria o autoritativa nella scuola pubblica del crocefisso è incompatibile con l’ indispensabile distinzione degli ordini dello Stato dalle confessioni religiose.
Il docente era stato sospeso nel 2009, per un mese dallo stipendio e dall’insegnamento, per aver rimosso, in autotutela, il crocefisso dall’aula dove insegnava durante la sua ora di lezione, per garantire la dovuta laicità e inclusività degli ambienti educativi.
Dopo un lungo iter questa sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione è importante perché definisce che l’affissione del crocefisso da parte di dirigenti scolastici e della Pubblica Amministrazione è incompatibile con il principio di laicità dello Stato.
Nella sentenza è affermato che l’autorità pubblica non può promuovere con effetti vincolanti — e dunque con implicazione sanzionatoria per chi entri in contrasto con quella prescrizione — un simbolo religioso, neanche con la semplice e passiva esposizione silenziosa su una parete.
Nella sentenza si ricorda che l’affissione del crocefisso nelle scuole è stata imposta dal fascismo, che subito dopo la marcia su Roma iniziò quel processo di affiancamento della chiesa cattolica che portò ai patti lateranensi nel febbraio 1929.
Oggi non esiste più alcuna religione di Stato e la laicità dello Stato è un principio costituzionale fondamentale come ribadito dalla Cassazione con questa sentenza.
Un secondo principio importante è che la scuola non è “un servizio a domanda”: la circolare del dirigente scolastico era illegittima anche perché basata solo sulla richiesta della maggioranza degli studenti, senza tener conto delle diverse esigenze rappresentate dalla minoranza degli studenti e dallo stesso prof. Coppoli.
L’Istituzione scolastica autonoma, tramite gli organi collegiali e, nello specifico, il consiglio di classe (non il dirigente scolastico autoritativamente) deve trovare un “ragionevole aggiustamento” fra le diverse istanze. In particolare, la Corte propone a titolo esemplificativo tre possibilità: a) l’affissione sulla parete accanto al crocefisso di un simbolo rappresentativo della cultura laica; b) una diversa collocazione spaziale del crocefisso non alle spalle del docente; c) l’uso non permanente della parete con il momentaneo e rispettoso spostamento del crocefisso durante l’ora di lezione del docente, che è esattamente il comportamento tenuto dal prof Coppoli , che a fine lezione rimetteva il crocifisso sulla parete.
Affermando che il crocefisso è un simbolo passivo la sentenza ha, invece, respinto la questione della discriminazione.
Va sottolineato che la soluzione prospettata dalla Corte apre alla possibilità che nella pratica si arrivi ad una forte differenziazione di pratiche tra le scuole con l’affissione di diverse rappresentazioni religiose con una pericolosa moltiplicazione dei simboli religiosi nelle aule; è preferibile una soluzione alla francese con il divieto di esposizione di simboli religiosi nelle aule. Va evitato, in ogni caso, l’uso discriminatorio dei simboli religiosi o culturali, contrario alla ratio della sentenza che ribadisce continuamente che in materia di religione nessun rilievo può essere attribuito al criterio quantitativo, al criterio di maggioranza e che la scuola pubblica non ha e non può avere un proprio credo da imporre: l’ambiente scolastico è sottratto al principio di autorità trascendentale!
I COBAS della scuola, docenti e ATA, continueranno a lavorare per costruire una comunità educativa inclusiva, libera e critica ed evitare un uso strumentale, escludente e discriminatorio dei simboli religiosi.
Per una moratoria dei test Invalsi in pandemia, e per una ridiscussione partecipata del sistema di valutazione della scuola Nei giorni scorsi il ministro Bianchi ha preso la decisione di annullare per quest’anno le prove standardizzate Invalsi nelle classi seconde delle scuole secondarie di secondo grado. La decisione prende atto della difficile situazione delle scuole e del tormentato anno didattico che è stato vissuto con grande fatica da studenti, insegnanti e genitori, rendendo decisamente fuori luogo la somministrazione di test come se tutto fosse come due anni fa. E’ evidente che le prove che sono state elaborate per raccogliere dati in una situazione di normale didattica non possono essere ragionevolmente proposte nel contesto presente. Se però appare assennata e condivisibile la decisione per queste classi, risulta francamente incomprensibile la conferma contestuale di tutte le altre prove Invalsi, quelle rivolte ai maturandi, agli studenti delle scuole secondarie di primo grado, alle bambine e ai bambini di quinta e seconda elementare. Da una parte osserviamo una presa d’atto della drammaticità dell’emergenza che la scuola italiana sta vivendo, ma allo stesso tempo risulta evidente un’ostinazione burocratica a confermare nei marosi della pandemia i rigidi assolvimenti della scuola pre-pandemica. Questa rigidità – tra l’altro – sta giustamente suscitando le critiche e le richieste di sospensione che giungono da tutti i soggetti della scuola, a partire da genitori e studenti fino ad arrivare al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Che senso può avere effettuare i test quest’anno a classi decimate, a frequenza se va bene del 50%, dopo mesi e mesi di didattica a distanza, mentre si fatica a trovare tablet e connessioni da assicurare ai bambini o alle ragazze confinati a casa, o a reperire supplenti per sostituire i docenti in quarantena? Davvero l’ottusità burocratica può arrivare a questa ostinata rivendicazione del suo potere sulla scuola reale e sulla sua sofferenza? Noi chiediamo al Ministero di sospendere quest’anno tutte le prove Invalsi, lasciando ai docenti e agli studenti la possibilità di concentrare le esigue forze rimaste sulla didattica quotidiana, sul confronto e sullo scambio dialettico a partire dalle dure esperienza del presente, sul consolidamento delle preziose relazioni umane e pedagogiche che sono riuscite in questi due anni a far sopravvivere la scuola e le persone che la abitano. Chiediamo anche di aprire, a partire da questa estate, un confronto ad ampio raggio sulle modalità di valutazione nella e della scuola italiana. Il sistema messo a punto dall’Invalsi in questi anni a fronte di ingenti spese ha prodotto dati di conoscenza dalla scarsa affidabilità e utilizzabilità per migliorare la scuola nazionale a prezzo di pesanti effetti controproducenti sulla didattica e sull’organizzazione della scuola. In particolare, si sta diffondendo l’addestramento ai quiz e viene favorita l’abilità nel fornire risposte conformiste nell’ottica di chi ha elaborato le domande, mentre la scuola italiana avrebbe bisogno di rimettere al centro la promozione dello spirito critico, della creatività, dell’autonomia di giudizio. Le innovazioni normative introdotte quest’anno per quanto riguarda la valutazione nella scuola primaria hanno costituito un segnale di inversione di tendenza che a nostro parere va sostenuto. E’ giunto il il momento di ritornare a discutere quali strade percorrere per raccogliere informazioni sullo stato di salute della scuola, coinvolgendo nel dibattito le diverse componenti della scuola, a partire dai docenti, considerati come parte attiva della riflessione e non come meri somministratori di test elaborati altrove.
A scuola, forse, non ci si dovrebbe servire di un Bignami.
Il clamore suscitato da una lezione ed un esercizio in classe in cui è stata coinvolta una nota canzone di Bello Figo sembra decisamente immotivato: se ne è parlato sui giornali locali, è stato coinvolto l’Ufficio scolastico provinciale, l’On. Bignami ha addirittura rivolto un’interpellanza parlamentare al Ministro Bianchi. Si è parlato di cattive influenze sui ragazzi, dell’assenza di un contesto nell’attività didattica, di pessima qualità dei contenuti proposti. Ce n’è veramente motivo o forse dobbiamo scavare per cogliere le vere ragioni di una così grande mobilitazione?
La vicenda è stata presentata come se l’ascolto della canzone fosse frutto di un’improvvisazione della docente, come se ci fosse un intento un po’ naif di fondo, senza alcun tipo di spirito critico. Noi sappiamo che è esattamente il contrario, perché conosciamo la collega e la sua lunga esperienza di docente. Non è qui il punto però: si tratta infatti dell’ennesima occasione in cui si cerca di far passare un’insegnante come una sprovveduta, mettendo in discussione la professionalità e l’autonomia di noi docenti. È un gioco facile del resto: basta estrapolare un’attività dal suo contesto per avere questo effetto. Un’operazione facile in un momento in cui le lezioni sono a portata d’orecchio di chiunque passi.
Come è stato possibile che un’ora di italiano in DAD delle Aldrovandi Rubbiani si sia trasformata in un avviso all’Ufficio scolastico, in diversi articoli e oggi in un’interpellanza parlamentare? Semplice: in questo periodo in cui la didattica si sviluppa su piattaforme digitali, microfoni e videocamere è molto facile prestare orecchio a quello che si svolge nelle ore di lezione, anche se lo spazio della classe dovrebbe restare, anche in modalità digitale, un luogo sicuro non solo per chi insegna, ma soprattutto per le e gli studenti. L’aula non è un qualcosa che rinchiude, anzi: lo stare a scuola permette a ragazze e ragazzi di trovare uno spazio di confronto, di discussione e quindi di crescita reso sicuro dalla presenza di insegnanti. Quest’area di libertà viene loro garantita oggi? La serenità di parlare e di esprimersi liberamente è messa a rischio dal fatto che ci potrebbe essere qualcuno di non identificato all’ascolto. In maniera chiara lo sottolineano le colleghe e i colleghi della nostra compagna
«E’ anche per questo che lo spazio della classe e della scuola può essere liberatorio, perché eccede i confini della famiglia, dei suoi valori e delle sue prescrizioni, permettendo a ragazze e ragazzi di incontrare il mondo esterno nella sua complessità e di formarsi una propria autonoma identità sociale. Questo spazio deve essere preservato a tutti i costi nella sua autonomia e protetto da intrusioni esterne dei genitori».
E poi: come mai abbiamo potuto leggere di quest’ora di lezione su “Il Resto del Carlino”? Perché una docente si è trovata a dover parlare delle sue scelte didattiche ed educative ad un giornalista?
Se il clamore sulla tanto discussa ora di lezione è stato sollevato da una o più famiglie che hanno ritenuto poco opportuno un intervento didattico dobbiamo immaginare che questa sia stata l’extrema ratio di fronte al muro sollevato da una docente? L’incontro a scuola in presenza della preside non è evidentemente servito ad aprire un dialogo con la genitrice che non ha preso in alcuna considerazione le motivazioni didattiche addotte, preferendo rivolgersi “altrove”. Forse, dall’alto della sua posizione di parte – secondo lei – offesa, si sarebbe resa disponibile al dialogo solo e soltanto se avesse ricevuto delle scuse, ovvero se la nostra collega avesse chinato la testa e rinunciato alle sue posizioni pedagogiche-relazionali. Un passaggio fondamentale questo, di cui nei successivi passaggi sui media e oggi in Parlamento si è persa ogni traccia. Perché? Si è deteriorata fino a questo punto l’importanza data al dialogo con le famiglie o dietro a questo “scandalo bolognese” c’è qualcuno che ha cercato di approfittare di questa situazione per ottenere visibilità sulle spalle di una collega?
Veniamo poi ad un punto che fino ad ora abbiamo lasciato da parte ma che invece per noi, che facciamo scuola davvero giorno per giorno è in realtà centrale: la didattica e la relazione educativa che costruiamo con le e gli studenti.
Tra le critiche mosse alla scuola una delle più frequenti è quella di essere slegata dalla realtà, non attenta al mondo in cui vivono i ragazzi e le ragazze e, soprattutto per quanto riguarda le materie umanistiche, inutile. Quella situazione che qualcuno- molto probabilmente interessato- ha voluto mettere in discussione è invece un esempio, se mai ci fosse bisogno di spiegarlo, di quella che potrebbe essere una modalità “da manuale”di condurre una lezione: una proposta didattica che coinvolge attivamente dei ragazzi e delle ragazze all’interno della lezione su tematiche che possono essere pienamente considerate di cittadinanza; nel momento in cui la docente coglie qualcosa che possa risultare offensivo per lei stessa o per qualche studente della classe sospende l’attività non in una modalità censoria bensì stimolandoli alla riflessone e all’esercizio attivo delle proprie capacità critiche, invitando infine ad applicare alcuni strumenti che possono essere figlie della disciplina- l’analisi delle produzione testuali, l’uso dell’argomentazione e l’organizzazione del proprio punto di vista- ad un qualcosa di reale e che appartiene alla vita di tutti i giorni, proprio quella che si trova fuori dalle ore di lezione e che dal ministero ci invitano a tenere come banco di prova. E allora, il problema dove si dovrebbe trovare?
C’è un altro aspetto infatti che va considerato e che ci sembra importante sottolineare anche in questa situazione in cui sono evidenti i vantaggi politici che qualcuno sta ricavando da tutto questo: il rapporto che alcune famiglie ritengono di poter avere con i/le docenti e l’istituzione scuola. Dal loro punto di vista, sollevando questo polverone, i genitori in questioni hanno voluto evidentemente palesare l’insoddisfazione per un servizio che non ritenevano adeguato, naturalmente il tutto condito con una logica molto alla moda del “te la faccio pagare”. È questo ciò cui si sono ridotti la scuola e l’insegnamento? Evidentemente anni di aziendalizzazione dell’istruzione e di immiserimento della scuola hanno portato alla percezione dell’insegnantecome una figura completamente svuotata di ogni autonomia critica e culturale di cui ci si può lamentare qualora non ci piaccia. Così reagiscono i clienti insoddisfatti quando pubblicano una recensione negativa di un ristorante sui social se non hanno trovato il servizio all’altezza. Oggi lo è una supposta attività offensiva, un domani, neanche troppo lontano, potrebbe esserlo qualunque nostro tipo di scelta. La costruzione di un rapporto scuola-comunità incentrata sull’ottica dell’erogazione di un servizio non può che aver questo come risultato. E a conti fatti, si finisce per erodere il principio cardine della libertà di insegnamento previsto dalla Costituzione senza intaccarlo direttamente. Un danno questo che non riguarda solo chi insegna ma soprattutto gli studenti e le studentesse che finiscono per perdere delle occasioni preziose, molto rare nella società di oggi, di potersi confrontare in maniera critica, libera e sicura e di maturare quindi una loro opinione.
Ci si augura che in questa occasione, a differenza di quello che è successo in altre situazioni come quella molto nota della collega di Palermo Rosa Maria Dell’Aria, l’Ufficio scolastico non si presti a questi giochi che nulla hanno a che fare con il benessere di ragazzi e ragazze, probabilmente soddisfatti e tranquilli di avere una docente in gamba. Dopo la notizia che l’operazione di sciacallaggio politico ai danni della scuola è giunta perfino al livello dell’interpellanza parlamentare per mano dell’onorevole Bignami è la scuola nel suo insieme, le docenti e i docenti di ogni plesso scolastico che sono chiamati a rispondere sulla scia di quanto hanno fatto colleghe e colleghi dell’Istituto Aldrovandi.
INVITIAMO PER QUESTO TUTTI A DISCUTERE IN CLASSE L’EPISODIO INCRIMINATO, DANDO ANCORA UNA VOLTA VOCE AGLI STUDENTI E ALLE STUDENTI AFFINCHÈ ANCHE DA UN EPISODIO PER MOLTI ASPETTI SQUALLIDO COME QUESTO POSSA NASCERE QUALCOSA DI POSITIVO E COSTRUTTIVO A PARTIRE DAL LIBERO CONFRONTO.
PERCHÉ È LA LORO LA VOCE CHE SI VUOLE SPEGNERE, INSIEME ALLA LIBERTÀ DI INSEGNAMENTO, NON QUELLA DI BELLO FIGO.
La scuola in cui insegni potrebbe fare di più per includere studenti LGBTQI+?
Noti episodi di bullismo, insulti e prese in giro a chi non si conforma agli stereotipi di genere?
Vuoi fare qualcosa ma non sai bene da dove partire?
Lavagna arcobaleno è nata con questo scopo e in questo incontro online avremo piacere di fartela conoscere al meglio!
Lavagna Arcobaleno è la sezione del sito www.traccearcobaleno.it pensata per supportare docenti che vogliano migliorare il clima della propria scuola in merito alle persone e alle tematiche LGBTQI+. Nasce dal lavoro di Centro Risorse LGBTI, in collaborazione con CESP per quanto riguarda la redazione di una guida per insegnanti, ed è inserita in un sito creato con Scuola e Formazione Cassero e con l’associazione Prendiparte al fine di esplorare e far conoscere meglio le esperienze delle soggettività LGBTQI+ in ambito scolastico per portare ad azioni concrete di supporto e accoglienza.
Ne parleremo con:
Valeria Roberti, Centro Risorse LGBTI Valentina Millozzi, CESP-Centro Studi per la Scuola Pubblica Caterina Di Loreto, Scuola e Formazione Cassero
La presentazione in oggetto è inserita nel progetto “La nostra scuola è differente” finanziato dalla Regione Emilia Romagna Ci troviamo su Meet! ID riunione meet.google.com/xak-paet-ufu Numeri di telefono (IT) +39 02 8732 3782 PIN: 529 074 271#
Gli allegati riguardano i seguenti argomenti: • valutazione a distanza • ricevimento genitori • obbligo orario di lavoro • utilizzo delle piattaforme e libertà di insegnamento
Dal 4 marzo, giorno della sospensione dell’attività didattica su tutto il territorio italiano, a oggi, docenti e personale ATA hanno, con grande senso di responsabilità, mantenuto vivo il rapporto didattico-educativo con gli studenti. La sospensione dell’attività didattica in presenza ha offerto, però, un’opportunità del tutto insperata alla lobby della cosiddetta scuola dell’innovazione, a coloro che vogliono imporre l’e-learning come forma complementare ordinaria di funzionamento della scuola: la mattina attività laboratoriali e di gruppo, col docente in funzione di tutor o animatore, il pomeriggio le lezioni, su UDA standardizzate, in modalità a distanza e usando preferibilmente il software proprietario delle piattaforme delle grandi dell’hi-tech: Google, Amazon, Microsoft, ecc., con il docente ridotto a facilitatore, che introduce materiale digitale, somministra test e corregge elaborati standardizzati degli alunni. Nella mente dei pionieri della scuola a distanza e dell’innovazione didattica gli unici ostacoli al rinnovamento sono le ostinate resistenze della massa dei docenti “conservatori” e il digital divide. Il “Piano” che si sta profilando si annuncia in assoluta continuità con le controriforme che hanno funestato la scuola negli ultimi 25 anni, con l’obiettivo di impedire una formazione critica delle giovani generazioni, destinate, in larga misura, a lavori precari e ripetitivi. Coerentemente con questa logica, mentre nelle scuole si procede a forme di imposizione coatta della DaD, per tanti discenti il diritto all’istruzione viene semplicemente negato perché privi di mezzi tecnologici e/o di connessione; la negazione di tale diritto è ancora più marcata nelle situazioni estreme e disagiate come per le alunne e gli alunni diversamente abili, o nelle scuole carcerarie o per le bambine e i bambini dei campi rom.
È bene chiarire che non c’è, da parte nostra, nessun pregiudiziale rifiuto dell’uso della tecnologia a supporto della didattica. Il problema si pone quando la tecnologia esaurisce in sé il concetto di “innovazione” e, da strumento a supporto delle didattiche, si trasforma da mezzo in fine, in metodologia didattica in sé, in “nuova scuola”. La Didattica a Distanza è la riproposizione, in chiave tecnologica, della scuola della “trasmissione”, che Danilo Dolci considerava tipica delle società autoritarie e pre-democratiche e alla quale opponeva la didattica della “comunicazione”, in cui discenti e docenti si ritrovano insieme, fisicamente, nello stesso spazio concreto, con i loro corpi, i loro sguardi, i loro gesti, la loro prossemica, con la densità di detti e non detti che solo nella compresenza fisica può determinarsi. È per questi motivi, prima che intervenga qualsiasi altra considerazione, che noi riteniamo la DaD come un ripiego a cui si può ricorrere, provvisoriamente e per un tempo limitato, solo in una situazione di assoluta emergenza come quella che stiamo vivendo: altro che “grande opportunità”.
Mentre ci si accinge a far ripartire gran parte delle attività lavorative, il governo deve spendere ora tutte le energie per assicurare il ripristino delle “normali” attività scolastiche in condizioni di sicurezza nel più breve tempo possibile. E in questa chiusura di anno scolastico il governo deve studiare tutte le strade percorribili per consentire che gli esami finali, sia per la scuola secondaria di primo grado che per quella di secondo grado, si svolgano in presenza e in condizioni di sicurezza per candidate/i e docenti su tutto il territorio nazionale, “riducendoli” alla sola prova orale. Per tornare in classe, oltre a predisporre uno screening sanitario di tutte le comunità scolastiche e un’accurata sanificazione dei locali, occorrono:
a) una revisione dei criteri di formazione delle classi, con una drastica riduzione del numero degli alunni in ottemperanza alle norme di distanziamento previste dal decreto sulla sicurezza;
b) un aumento degli organici attraverso l’assunzione di tutti i docenti con almeno 36 mesi di lavoro e l’assunzione del personale ATA che ha lavorato almeno due anni;
c) investimenti significativi per garantire interventi urgenti per modifiche, anche provvisorie, alla struttura interna degli edifici scolastici, con ampliamento delle aule e reperimento di ulteriori spazi, con l’impiego immediato di ogni edificio idoneo disponibile per accogliere le classi in condizioni di sicurezza.
Purtroppo, in tutto questo periodo di emergenza in molte scuole sono state imposte modalità di lavoro illegittime e inopportune o direttamente dai DS o attraverso delibere degli OOCC riuniti on line, una modalità di riunione, quest’ultima, non prevista prima della conversione in legge del d.l. n. 18/2020 approvata, con voto di fiducia, dalla Camera il 24/4/2020. Al di là della legge, il buon senso avrebbe dovuto far condividere a tutte/i l’idea che, in una situazione eccezionale come quella attuale, si sarebbero dovuti utilizzare strumenti e modalità non “regolari” solo per rispondere ai problemi dell’emergenza. Per questo proponiamo che oggi, all’interno degli OOCC, le discussioni e le conseguenti deliberazioni riguardino soltanto le problematiche relative alla conclusione dell’anno scolastico. Dunque, di cosa devono/possono occuparsi le riunioni degli OOCC on line?
1) Garantire il confronto sulla DaD, nella consapevolezza che ogni docente, in nome della libertà di insegnamento e degli stessi Decreti Legge, ha assoluta autonomia nella organizzazione del lavoro (tempi, scelta modalità DaD, verifiche, ecc.).
2) Garantire il confronto sul tema della valutazione, tenendo conto che tutti gli studenti saranno ammessi all’anno successivo e/o agli esami finali e che nessuna valutazione di tipo sommativo potrà essere effettuata durante tutto il periodo della sospensione dell’attività didattica.
3) Formazione delle Commissioni esaminatrici per gli Esami di Stato.
4) Individuare (proposta da confermare “in presenza” all’inizio del nuovo anno scolastico) le forme di recupero da attuare nel mese di settembre, per le quali va contestualmente richiesto al Governo un adeguato impegno economico.
Ricordiamo che il dirigente scolastico non ha alcun potere autoritativo e deve agire solo ed esclusivamente applicando la normativa vigente, il CCNL e le delibere degli OO.CC. Inoltre, il d.l. n. 22/2020 ha conferito alla Ministra dell’Istruzione una delega speciale che dovrà intervenire, tra l’altro, sulle problematiche relative alla conclusione dell’anno scolastico; riteniamo sbagliato che un Collegio docenti si esprima prima di conoscere le linee decise dal Ministero. È necessario dunque affrontare i prossimi Collegi Docenti “attrezzati” in modo da sfruttare al massimo le prerogative degli Organi Collegiali, impedire qualunque forma di disciplinamento e standardizzazione delle pratiche didattiche e lo svilimento del dibattito democratico e della istituzionalizzazione di pratiche deleterie.
Esecutivo Nazionale COBAS – Comitati di base della Scuola
27 aprile 2020
In allegato alcune indicazioni pratiche, supportate normativamente, sul comportamento da tenersi in merito alle questioni che più frequentemente vengono segnalate dalle scuole. Consigliamo in via prioritaria di presentare mozioni alternative a quelle dei DS invitando i colleghi a sostenerle con il loro voto; nel caso in cui le nostre mozioni non raggiungessero la maggioranza dei voti, si può utilizzare l’opzione di minoranza, prevista dalla normativa, che permette di sottrarsi agli obblighi deliberati dalla maggioranza; le opzioni di minoranza possono essere individuali o sottoscritte da gruppi di docenti, facendo metterle a verbale coi nominativi degli aderenti.
Gli allegati riguardano i seguenti argomenti:
• valutazione a distanza
• ricevimento genitori
• obbligo orario di lavoro
• utilizzo delle piattaforme e libertà di insegnamento
Preservare e valorizzare il valore di presidio civile delle pratiche messe in atto da migliaia di docenti in queste settimane significa porre delle distinzioni e smarcarsi da diffusi comportamenti adottati in queste settimane da dirigenti e insegnanti nostr* collegh*, che non trovano fondamento nella normativa vigente né producono effetti positivi nella gestione della situazione presente.
In una precedente nota dei primi giorni dell’emergenza, http://www.cobasbologna.it/lettera-allusr-e-ai-dirigenti-delle-scuole-bolognesi-emergenza-covid-2019, avevamo già stigmatizzato i comportamenti inutili e dannosi di quant* tra i/le dirigenti si erano moss* fin da subito in veste di commissari straordinari con pieni poteri di direzione delle scuole. Comportamenti illegittimi sul piano sindacale – e non insistiamo qui su questo aspetto – ma soprattutto dannosi: muoversi sul terreno degli obblighi e delle imposizioni dall’alto significava annullare fin dal suo nascere il movente più profondo e significativo che animava il desiderio di incontrarsi, sia per le/i docenti che per le/gli studenti. Si trattava semmai di invitare e supportare, non di imporre, di coordinare e non di comandare. Pur avendo sollecitato l’adozione della didattica a distanza nelle scuole con il DPCM dell’8 Marzo 2020, nessuna fonte ministeriale ha mai imposto una modalità unica di intenderla negando esplicitamente la libertà di insegnamento, né autorizzato i dirigenti a diventare fonte normativa delle nuove condizioni di lavoro nella scuola definendo in autonomia gli obblighi connessi alla funzione docente.
Ora è opportuno ribadire che siamo e continueremo ad essere nelle sabbie mobili, stiamo sperimentando metodologie di relazione che non conosciamo e non controlliamo, siamo consapevoli della finalità relazionale-educativa delle scelte diversificate che abbiamo messo in campo, ma anche che non sono accessibili a tutti e sul piano didattico andiamo per tentativi, non abbiamo alcuna certezza di ciò che facciamo, se non che sperimentiamo qualcosa di profondamente diverso dalla didattica in presenza e che in nessun modo dovrebbe essere forzosamente ricondotta e incasellata in quelle forme. Il mondo dell’e-learning esiste, ma non è la scuola. Non stiamo facendo i preparativi per il “salto di qualità”, ma semmai stiamo sperimentando i limiti di queste modalità e acquisendo maggiore consapevolezza della irriducibile complessità e ricchezza della vita scolastica reale, che oggi ci è preclusa.
Ciò che facciamo è costitutivamente provvisorio perché nato da una situazione di emergenza e tale deve rimanere. E’ la condizione storica che ci impone l’incertezza, facciamo lezioni con alunne e alunni che possono vivere quotidianamente la paura per i genitori che lavorano nell’ambito della Sanità o degli altri servizi essenziali in cui sono a contatto con il pubblico, sentiamo storie di tracollo finanziario, di studenti che raccontano l’inquietudine di genitori costretti a chiudere la propria attività e che non sanno come potrà finire. Noi dovremmo ascoltare e condividere, dar loro voce per sentirci noi stessi – che il lavoro e il reddito non lo abbiamo perduto – vicini e a sostegno di chi è in situazione più grave di noi. La dimensione scolastica a distanza non può diventare una bolla, un mondo parallelo in cui si finge di continuare come se nulla fosse accaduto, e meno che mai dovrebbe rappresentare un salto verso la scuola del futuro; semmai dovrebbe appunto farci capire meglio cosa la scuola non può e non deve diventare, consapevoli del fatto che ogni emergenza lascia strascichi e pericoli, rende pensabile e politicamente riproducibile ciò che è stato sperimentato.
Dobbiamo dircelo, è un problema che investe il modo di operare di noi insegnanti anche a prescindere dall’imposizione esterna. L’affannoso tentativo di mantenere in vita la scuola che conoscevamo può portarci improvvidamente a ripeterne e scimmiottarne le procedure e ritualità che nel contesto attuale risultano del tutto inadeguate e improponibili.
L’orario delle lezioni, il carico di compiti, l’utilizzo del registro per firme, lo svolgimento della programmazione, le modalità di osservazione e valutazione non possono essere quelle che adottavamo in classe. Dovrebbe essere il semplice buon senso a darcene contezza, ma spesso esso naufraga di fronte all’ansia da prestazione e forse al bisogno più profondo di dominare una realtà che invece ci sta sfuggendo di mano. Non dobbiamo dimostrare niente, solo pensare e fare ciò che ci sembra abbia un senso.
Quindi procedere con misura è quasi un imperativo etico nella situazione presente, senza eccedere nelle richieste, in particolare nella scuola primaria, senza mettere in difficoltà studenti e famiglie, che giustamente iniziano a denunciare la fonte di stress ulteriore causata dall’accumulo di lezioni e compiti, nella consapevolezza che oggi più che mai non sappiamo quale sia la vita reale delle persone dietro lo schermo.
Riteniamo sia essenziale bloccare le fughe in avanti, mantenere per quanto possibile la lucidità nella gestione di una situazione che rischia sempre di sfuggirci di mano anche per effetto della proliferazione di note ministeriali, che comunque hanno generalmente la caratteristica di invitare, suggerire proporre e non di imporre indicazioni precise. Questo è il compito che si sono invece autonomamente assunt* alcun* dirigenti, inebriat* dalle improvvide lusinghe del video messaggio della ministra Azzolina, in cui sono stati infelicemente investiti del ruolo di capitani.
Gli esempi purtroppo non mancano, l’emergenza è una ghiotta occasione per le velleità dirigiste (ma, lo ribadiamo, a volte anche frutto dell’azione autonoma dei docenti). A questo è importante reagire negando agibilità alle seguenti pratiche illegittime e pericolose:
· convocazioni di organi collegiali a distanza con pubblicazione delle relative delibere;
· utilizzo del registro elettronico per firmare, scrivere voti, note disciplinari, assenze;
· orario delle lezioni a distanza identico al precedente orario di servizio;
· incursioni di controllo durante le lezioni online da parte del dirigente o dei collaboratori;
· richiesta di rendicontazione puntuale delle attività svolte e di nuove programmazioni;
· costruzione di una catena di comando attraverso l’ingiunzione ai coordinatori di svolgere compiti di controllo dei colleghi e di fare rapporto al dirigente;
· imposizione delle modalità e degli strumenti da utilizzare per attuare la didattica a distanza;
· prove di verifica sommative e loro valutazione.
Non c’è nulla, davvero nulla che dia legittimità a queste azioni. Non c’è neanche nulla che le impedisca, se non la nostra consapevolezza, il nostro senso di realtà e la nostra volontà di prendere una posizione. Questa è l’ambiguità di fondo anche delle diverse note ministeriali dettata dal fatto che si pretende di affermare che la scuola continua, che il diritto all’istruzione è garantito quando invece è stato sospeso (su questo punto vedi http://www.cobasbologna.it/scuola-e-didattica-al-tempo-del-coronavirus ).
Riprendiamo alcuni punti più nel dettaglio.
Organi collegiali
Per quanto riguarda il funzionamento degli organi collegiali è escluso che delibere online possano avere valore legale, ciò va ribadito anche in occasione di incontri convocati in tale forma (sempre se si decide di partecipare ovviamente). Ogni momento di scambio e coordinamento tra collegh* è prezioso ma deve rimanere un momento di confronto libero e volontario, questa spontaneità ne costituisce il valore primario, non è la convocazione di un organo collegiale, non può prendere decisioni vincolanti sul piano formale né implicare obblighi di presenza.
Registro elettronico
La sospensione delle attività didattiche implica la sospensione dell’utilizzo del registro elettronico secondo le modalità consuete. Esso diventa soprattutto un mezzo per comunicare con le/gli studenti, ma non è uno strumento per certificare la presenza dell’insegnante, degli studenti, per registrare valutazioni o note disciplinari. Esso può invece essere utile per comunicare con studenti e famiglie e soprattutto per coordinare le attività di lezione online che dovrebbero ragionevolmente evitare un sovraccarico di ore davanti al pc sia per le lezioni che per lo svolgimento di compiti.
Valutazione
L’ultima nota ministeriale sulla didattica a distanza del 17 marzo 2020 che tratta il tema della valutazione è necessariamente vaga per quanto affermi che la valutazione è momento necessario di ogni attività didattica e cerchi di imporla in modo unilaterale e illegittimo. Essa afferma semplicemente che “le forme, le metodologie e gli strumenti per procedere alla valutazione in itinere degli apprendimenti, propedeutica alla valutazione finale, rientrano nella competenza di ciascun insegnante”. Noi qui dovremmo fermarci, cioè alla presa d’atto che non si dice nulla di specifico e non esiste alcuna regolamentazione della valutazione della didattica a distanza.
Quello che dalla stessa nota emerge chiaramente è l’improponibilità di forme di valutazione sommativa e – aggiungiamo noi – ciò implica la necessità di resistere all’imposizione o alla tentazione di mettere voti sul registro. Certo si può cercare una forma per dare un feed back formativo ( consapevoli che proprio il feedback è spesso ciò che rende problematica la comunicazione a distanza) riguardo alle attività svolte, alla partecipazione, ai lavori consegnati, ma appunto dovrebbe mantenersi su un piano fluido magari anche non numerico, con il fine principale di sollecitare e rispondere alle esigenze degli studenti, e di discuterne con loro, non di colmare le ansie di chi non sa come potrà rendicontare il lavoro svolto o su quale base fornire una proposta di voto per gli scrutini (non dimentichiamoci che quando si tratterà di valutare negativamente un alunno perché non ha partecipato o non si è impegnato a distanza, tutto il castello di carta della valutazione degli apprendimenti dovrebbe crollare inesorabilmente e scopriremo che – quest’anno – la valutazione si muoverà su criteri diversi). Questo non è un nostro problema individuale, riguarderà milioni di studenti e, prima o poi, dovrà emergere una indicazione definita al riguardo.
Oltretutto i decreti vigenti pongono dei limiti temporali alla sospensione delle lezioni e non siamo noi a dover andare oltre, anche se sappiamo che verranno estesi. Stiamo vivendo nell’attesa, nella transitorietà, non ha alcun senso che singoli docenti o anche singole scuole inizino ad avanzare soluzioni particolari del problema della valutazione di questo anno scolastico, che ovviamente dovrà investire l’intera scuola italiana. È forse questo il tempo di invocare i poteri dell’autonomia e l’ulteriore frammentazione delle decisioni politiche sulla gestione della scuola? È davvero paradossale che in questa situazione si debbano sentire toni trionfalistici o propagandistici per descrivere le attività messe in atto da singole scuole o singoli docenti.
Monitoraggi e rimodulazione delle programmazioni
Quanto detto vale anche per ciò che attiene alla richiesta di compilare monitoraggi sulle attività svolta o ridefinizioni della programmazione. A noi sembra che le risposte sensate possano solo essere quelle che negano la possibilità stessa di una programmazione in senso proprio, che prendono semplicemente atto della necessità di abbandonare l’idea di poter svolgere i programmi, di scegliere di volta in volta gli argomenti da privilegiare, di sperimentare forme di comunicazione e relazione educativamente più efficaci. Niente più che l’ovvietà, che può tradursi in poche righe scritte o anche nel rifiuto di compilare e scrivere alcunché.
Non facciamoci incastrare sulla questione degli apprendimenti, della valutazione, del registro, della programmazione, come se davvero il diritto all’istruzione non fosse stato sospeso. Lo ribadiamo ancora, spesso la fonte del problema è unicamente la pretesa illegittima di normare le attività di insegnamento e funzionali all’insegnamento come se le lezioni non fossero state sospese e ci trovassimo ancora sul terreno della didattica in presenza.
Senza la base scordatevi le altezze
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